Teocon o tradizionalisti

Terza e ultima parte


All'introduzione
all'articolo di Francesco Mario Agnoli
alla replica di Claudio Bernabei




Replica a Lepanto

di Luigi Copertino

La risposta ai nostri articoli da parte del dr. Claudio Bernabei, a nome del Centro Culturale Lepanto, conferma sostanzialmente i rilievi mossi ad un mondo, quello del "cattolicesimo (pseudo)tradizionalista", che, fino ad ieri emarginato, si è gettato con disinvolta gratitudine nelle braccia della destra liberale alla quale deve lo sdoganamento massmediatico e culturale.

Se prima avevamo il sospetto che dietro quelle che Bernabei chiama "scelte strategiche" vi fosse un'ambiguità di fondo, derivante dal piano dottrinale, ora ne siamo più che convinti. Dal momento che il Bernabei ci qualifica come un quivis de populo ("un certo Luigi Copertino…") cogliamo l'occasione, non avendo mai avuto manie pseudonobiliari - come è invece usanza dalle parti del nostro interlocutore -, per rivendicare, con fierezza, la nostra appartenenza, per retaggio familiare, a quel "popolo minuto" che, nei secoli passati, molto più delle legittime e meno legittime aristocrazie e monarchie, ha saputo difendere la Fede cristiana, prima che la mala pianta dell'irreligione, nata non a caso tra i ceti egemoni, ne corrompesse l'anima.

A beneficio dei nostri lettori, ai quali sempre si deve rispetto e sincerità, iniziamo con lo smentire categoricamente le affermazioni del Bernabei tendenti a far credere che il Centro Culturale Lepanto non abbia legami con il (neo)conservatorismo ("Il Centro Culturale Lepanto… non aderisce al neoconservatorismo, tanto meno a quello statunitense…"). Basta consultare i siti del CNR e di Magna Carta per verificare di persona che il prof. Roberto de Mattei, fondatore nonché presidente dal 1981 del Centro Lepanto, sia, contemporaneamente, "membro della Policy Experts della Heritage Foundation (Wahington)". Orbene, tutti sanno che la "Heritage Foundation" è uno dei think tank più attivi della galassia neoconservatrice americana.

Già questo basterebbe a smentire le affermazioni di Bernabei circa la posizione lepantina riguardo al neoconservatorismo. Infatti, in una realtà estremamente gerarchizzata come il Lepanto, l'adesione dei vertici dell'associazione ad altra organizzazione ha il chiaro significato della sussistenza di evidenti legami ed affinità culturali.

Ci risulta inoltre, da un articolo a firma di Andrea Carancini, che il presidente del Lepanto è legato anche all'"American Enterprise Institute" ed all'"Acton Institute", che sono altri due ben noti, e facoltosi, think tank neocons.

Le simpatie lepantine per l'"America conservatrice", tornata in auge con i trionfi della setta neocons, sono poi più che evidenti consultando "Radici Cristiane", rivista che, per essere diretta dal citato Roberto de Mattei e per avere diversi collaboratori appartenenti al Lepanto, tra i quali lo stesso Bernabei, non può non ritenersi espressione di un ambiente culturale vicino al Centro Lepanto. Sulla predetta rivista, infatti, sin dal primo numero si discetta degli Stati Uniti come di un paese in controtendenza per la sua rinascita religiosa, come di un paese moderno che affida il proprio futuro, per la rivitalizzazione bushista dei "valori tradizionali cristiani", alla "tradizione" (n. 1/febbraio 2005), per poi passare alla definizione degli Stati Uniti come di una "nazione aristocratica in uno Stato democratico" (n. 3/aprile 2005).

Sempre sulla stessa rivista (n. 1 cit.), ad un lettore - anti-americano di destra ma pentito - si risponde sostenendo che, sotto una patina di liberalismo ufficiale, negli Stati Uniti sono vive tradizioni riconducibili al tronco della "tradizione cristiana". Sennonché, si sorvola facilmente (e da parte di gente che vede nell'ecumenismo un pericoloso veleno…) sulle radici confessionali degli Stati Uniti, che sono assolutamente puritane. Non è un caso se il sistema di governo americano sia stato definito "teocrazia democratica".

L'atteggiamento politicamente "ecumenico" del Lepanto verso gli Stati Uniti ci fa ampiamente sospettare che per la mentalità forgiata dalle parti della cerchia lepantina non sia tanto importante l'adesione alla Verità, che è solo quella cattolica, quanto l'adesione a una visione del mondo oligarchica e a un'organizzazione sociale di tipo monarchico-nobiliare: se poi un tale mondo, così organizzato, è anche cattolico, tanto meglio, altrimenti, nell'attesa dell'auspicata conversione e per salvare le "scelte strategiche", si tace la Verità di fede in favore dell'opportunismo politico o culturale.

Nel beneaugurato caso in cui Bernabei e gli altri suoi amici lepantini vogliano farsi un'idea sulle radici gnostiche del protestantesimo americano, consigliamo loro la lettura dell'opera di Harold Bloom, La religione americana (Garzanti), e di quella di Cecilia Gatto Trocchi, Nomadi spirituali (Mondadori). Bernabei e i suoi amici potrebbero poi trarre molto profitto spirituale e culturale dalla lettura di un'opera di recente pubblicazione, per i tipi della Carocci, Dio benedica l'America. Le religioni della Casa Bianca, di Sébastien Fath, nella quale è ben descritta l'essenza soggettivista e relativista della religiosità americana.

Una religiosità che, pertanto, facendosi "religione civile" ed ideologia nazional-imperiale, è del tutto aliena dal dogma cattolico.

E proprio a proposito di "imperi", l'impossibile parallelismo, proposto dal Bernabei, tra ciò che fu e che rappresentò l'Impero Austroungarico e ciò che è e rappresenta il "falso impero" americano dimostra da un lato una chiara tendenza all'anacronismo storico e dall'altro la mancanza di adeguati strumenti culturali, adatti a comprendere il senso del passaggio dal moderno al postmoderno. Con troppa facilità Bernabei ed i lepantini dimenticano che è la "matrice protestante e massonica" a costituire l'essenza dell'americanismo, anche di quello rigorista e (neo) conservatore di Bush.

La radice dell'Impero Austro-ungarico, invece, stava tutta, anche nell'ultima fase della sua esistenza storica, nel retaggio cattolico del Sacro Romano Impero. Non è un caso che Bush oggi utilizzi gli stessi slogan, del tipo "rendere sicuro il mondo per la democrazia", che il presidente Wilson usava, nel 1917/18, contro gli "imperi centrali" e in particolare contro quel "residuo di oscurantismo papista e medioevale" che per le potenze occidentali anglosassoni era l'Impero del beato Carlo d'Asburgo. Ritenere che, oggi, gli Stati Uniti siano il baluardo contro il caos è alquanto puerile ed è possibile soltanto se si ignora o se si fa finta di ignorare il "cristomimetismo" dell'Antitradizione, come è ormai usanza fare negli ambienti della destra (liberal-conservatrice) cattolica fino al punto da spingersi, con estremo disprezzo del ridicolo, a tirare in ballo per gli Stati Uniti la "translatio imperii (cfr. M. Respinti, "Smantelliamo l'Onu" in "Il Domenicale" del 25/06/2005).

I lepantini rivendicano il diritto di rifiutare scelte geo-politiche, che essi definiscono pericolose, come quelle "mediterranea" o "euro-asiatica" o "terzomondista". Vada per il "terzomondismo", termine dietro il quale si cela un globalismo di segno pacifista eguale e contrario, nella speculare polarità "destra/sinistra" della politica moderna, al globalismo di segno liberista. Invece, per quanto riguarda l'area geo-politica "mediterranea", che è quella naturalmente propria all'Italia e all'Europa meridionale, e l'area geo-politica "euro-asiatica", sarebbe il caso che i lepantini riflettessero a proposito dell'enorme insensatezza da essi affermata: la Cristianità è storicamente maturata e si è confrontata culturalmente ed anche militarmente (ma non nei termini del tutto odierni del presunto "scontro di civiltà", perché le crociate altro non erano che "pellegrinaggi armati" per liberare l'accesso alla Terra Santa, e non operazioni di egemonia politicoeconomica globale) proprio con quel complesso mediterraneo ed euroasiatico, che in qualche modo (e molto più dell'area atlantico-protestante), della Cristianità è stato l'alveo naturale avendo essa, nei secoli premoderni, con tale complesso geo-culturale costituito una koiné culturale, poi estesa, per i meriti della Spagna asburgica, fino all'America centromeridionale.

Una koiné comunque fondata, pur nella fondamentale diversità religiosa, su principi di trascendenza spirituale, che garantivano la tolleranza di fatto tra le religioni abramitiche (molti cristiani vivevano sostanzialmente tollerati in terra mussulmana, così come molti mussulmani in terra cristiana e gli ebrei sia in terra cristiana che mussulmana), laddove invece la mala pianta della religiosità soggettivista, che è il vero nucleo della scristianizzazione, ha fruttificato in modo compiuto (e non contrastato, come in Europa) nel mondo anglosassone e in particolare nord-americano, da lì penetrando un po' alla volta verso l'Europa. Che, perciò, tra Stati Uniti ed Europa vi siano legami culturali (quelli "politici" e "strategici" oggi vi sono di sicuro e pendono certamente a favore dei primi e ai danni della seconda) ben più validi ed opportuni di quelli che legano l'Europa al mondo mediterraneo, asiatico o arabomaghrebino è affermazione dalle basi storiche molto deboli. Ai lepantini, che vogliano o abbiano il coraggio (perché la cosa comporta la disubbidienza ai loro capi) di uscire dal ghetto culturale nel quale sono costretti, consigliamo in proposito la lettura di due testi del medievista Franco Cardini, ossia Europa ed Islam. Storia di un malinteso (Laterza) e soprattutto L'invenzione dell'Occidente (Il Cerchio).

Il Centro Lepanto, per affermazione del Bernabei, considera validi e opportuni i legami che storicamente e attualmente legano l'Europa agli Stati Uniti. Viene da domandarsi, in proposito, se in tali legami sono da annoverare anche quelli che, per il tramite dell'alleanza con gli Stati Uniti, l'Europa ha, oggi, con l'Arabia Saudita e gli altri paesi mussulmani filooccidentali.

Paesi, questi, che, pur essendo fondamentalisti e governati (proprio come l'Arabia Saudita) da dinastie imposte a suo tempo dagli inglesi nell'interesse di Albione, vengono definiti "moderati", solo perché in affari con gli Stati Uniti, ma nel territorio dei quali non è possibile esporre pubblicamente simboli cristiani, come invece era possibile nell'Iraq, autoritario ma "laico", di Saddam Hussein, nel quale vivevano tranquillamente antichissime comunità cristiane che la guerra fondamentalista di Bush ha gettato in balia dei settori più integralisti dell'islam, costringendo circa 40.000 cristiani (caldei) iracheni a lasciare l'Iraq.

Apprendiamo dalla lettera di Bernabei (ma lo sapevamo già) che il Centro Lepanto non è contrario agli stati nazionali e che ne difende la sovranità perché essi, se ieri erano strumento della Rivoluzione, svolgono oggi un ruolo di resistenza al globalismo. Sostenendo da anni, con dovizia di argomenti teologici, filosofici e storici, esattamente la stessa tesi (e non solo su "Alfa e Omega": ci permettiamo di rimandare al nostro intervento alla seconda Università d'Estate di San Marino, "Gnosticismo, liberismo, federalismo", ora in Europa dei popoli Europa dei mercati. Modelli dell'integrazione europea, Il Cerchio; oppure ai nostri scritti pubblicati sulla rivista "Pagine Libere"), ci è agevole far osservare a Bernabei che difendere lo stato nazionale non è sufficiente se, come fanno i lepantini, non si difende al tempo stesso lo stato sociale, ossia la forma inevitabilmente assunta dagli stati nazionali nel XX secolo.

Infatti, quelle che sostengono l'espansione del globalismo, e che vogliono disfarsi dello stato nazionale, sono innanzitutto le forze liberiste e liberoscambiste per le quali gli stati sono interruzioni di flusso nel circuito planetario degli scambi commerciali e, soprattutto, finanziari. Se è vero che le organizzazioni transnazionali come l'Onu e il Wto sembrano in difficoltà, è però altrettanto vero che ad esse si va sostituendo il "liberismo imperiale" statunitense, il cui modello storico è l'impero britannico del secolo XIX, un modello nel quale le economie delle diverse parti dell'impero, anche laddove era riconosciuta un'autonomia nazionale nell'ambito di un unico commonwealth, erano tutte dipendenti dagli interessi britannici. Quelle forze liberiste, ormai, premono, fuori e dentro gli stati nazionali, affinché si portino a termine o si proceda alle privatizzazioni del comune patrimonio nazionale, si smantelli il welfare, si pongano sul mercato i servizi pubblici, si abbattano barriere protezioniste, si regionalizzino gli stati e delocalizzino le imprese: il tutto come strumento per giungere a un unico mercato globale organizzato al modo di una rete sinallagmatica di individui e associazioni territoriali snazionalizzate (ossia proprio la "Repubblica Universale" paventata da Bernabei).

Eppure, nonostante che soltanto i ciechi o coloro che sono in malafede potrebbero negare oggi alle forze liberal-liberiste il ruolo di agente primario della sovversione globale, leggendo il libro di Roberto de Mattei La Sovranità necessaria. Riflessioni sulla crisi dello stato moderno (Il Minotauro), in particolare le pp. 157 e seguenti, tutta la responsabilità della "quarta Rivoluzione" è attribuita soltanto alla Nuova Sinistra. Scrive il de Mattei:

"Col termine di postmodernità si delinea una Rivoluzione post-comunista, ma tutt'altro che anti-comunista, perché essa persegue … il fine ultimo del comunismo: ossia il progetto ugualitario di dissoluzione dello stato…" ed ancora: "Nell'orizzonte della quarta Rivoluzione confluiscono svariate scuole e correnti di pensiero: psicanalisi radicale, marxismo libertario, strutturalismo, fisica indeterministica, sociobiologia, "ecologia profonda" ed animalismo".
A detta, dunque, di de Mattei, e quindi del Centro Lepanto di cui egli è presidente da una vita, nonché unico riconosciuto maître à penser, nell'orizzonte della quarta Rivoluzione non confluisce il liberismo. De Mattei ben ricorda che, nel pensiero marxiano, il comunismo è antistatualista ma poi tace sul fatto che è proprio l'antistatualismo, insieme all'immanentismo negatore della trascendenza, ad accomunare, come inseparabili fratelli siamesi, il marxismo e il liberalismo.

Il vero marxismo, che consiste non nel comunismo ma nella silenziosa estinzione di Dio e nell'abolizione dello stato, si sta realizzando proprio nell'Occidente liberale postcristiano e post-statuale, dopo la caduta del comunismo sovietico che a suo (blasfemo) modo era, invece, ancora "autocratico e zarista". Augusto Del Noce, del quale il de Mattei dovrebbe ricordare meglio il grande magistero filosofico-politico, sin dagli anni sessanta e settanta del secolo scorso, individuava nel marxismo il veicolo del neo-liberismo in via di trionfare nella società permissivista e neo-borghese che egli vedeva sorgere dalla contestazione sessantottina e che definiva senza remore "nuovo totalitarismo", quello della dissoluzione, più capace di dominio dei passati modelli totalitari, inclusi il comunismo e il nazismo.

Il noto pensatore cattolico con ciò rispondeva anticipatamente alla tesi, oggi dilagante, secondo la quale la società liberale, vincitrice su nazismo e comunismo, sarebbe l'alternativa al totalitarismo. L'idea liberale della mano invisibile, che guida segretamente il mercato, esprime lo stesso concetto di antitrascendenza filosofica, di matrice gnostica, espresso dall'idea marxiana della società a-cefala autogestita: entrambe presuppongono l'abolizione/superamento dello stato nazionale (e sociale) e più in generale della Comunità politica (avversata perché "trascendenza egemonica"), come conseguenza dell'estinzione/morte di Dio.

Non è l'opposizione alla sinistra (vecchia o nuova) che rimproveriamo al Centro Lepanto, opposizione che anzi condividiamo, ma è lo strabismo di una posizione, che, come si è dimostrato, non è solo strategica ma anche dottrinaria, per la quale non ci si avvede del maggior pericolo che viene dalla destra liberalliberista, neoconservatrice e filo-americana. È per questo che, nonostante le affermazioni contrarie del Bernabei, la posizione "di destra" assunta dal Centro Lepanto, nell'accettazione dello schema "destra/sinistra", inventato dal moderno immanentismo politico, non può che renderlo subalterno alla destra liberale e quindi costringerlo a sposare, oggettivamente, la liberté rivoluzionaria contro l'egalité, ovvero la versione antiegalitaria della Rivoluzione moderna propugnata dal pensiero liberalconservatore e dalle politiche liberiste neoconservatrici. In speculare opposizione/complementarietà, come abbiamo rilevato nei nostri articoli su "Alfa e Omega", alla sinistra che della Rivoluzione fa propria l'egalité contro la liberté.

Se poi, per l'aristocratico palato lepantino, difendere, insieme allo stato nazionale, anche lo stato sociale (e oggi, storicamente, non è possibile difendere l'uno senza difendere l'altro), è di cattivo gusto, vogliamo ricordare ai "crociati" del Centro Lepanto che la critica più incisiva (al punto che Marx, temendola, la denigrava come "socialismo aristocratico") ai costi sociali della Rivoluzione fu fatta proprio dai ceti sconfitti, aristocrazia e clero, e fu poi portata avanti, per tutto il XIX secolo, da pensatori come Donoso Cortés e dal cattolicesimo intransigente, fino ad essere sistemata dottrinalmente dal Magistero nel Corpus Leonino (ossia nelle encicliche di Leone XIII, compresa la famosa Rerum Novarum).

Parallelamente, nella seconda parte del secolo XIX e nella prima parte del XX secolo furono governi conservatori, e non "social-comunisti", come quelli di Bismarck e del beato Carlo d'Asburgo (quest'ultimo con chiara ispirazione alla Dottrina sociale cattolica), a porre le basi dello stato sociale, successivamente perfezionato dai regimi nazionali di massa, come quello di Mussolini, e, poi, sotto questo profilo senza alcuna soluzione di continuità, dai regimi democratici del dopoguerra.

Questa ineludibile difesa dello stato anche nella sua concezione sociale, concezione che trae linfa e fondamento proprio a partire dalla Dottrina sociale cattolica, è oggi più che mai necessaria al fine di arginare il "relativismo". Ciò perché il relativismo non è solo, come dice Bernabei, religioso, filosofico, etico e giuridico, ma è anche sociale. Quest'ultimo aspetto del relativismo è - casualmente - quello sempre puntualmente misconosciuto e taciuto dalla destra cattolica infervorata per il neoconservatorismo.

Come già abbiamo rilevato negli articoli incriminati da Bernabei, un pensiero autenticamente cattolico e autenticamente tradizionale dovrebbe fuggire con orrore la precarizzazione dei rapporti sociali, anche sul piano socio-economico. Infatti, tra la revocabilità del matrimonio e quella del rapporto di lavoro non vi è poi tanta differenza, perché trattasi di due espressioni, ciascuna sul suo piano, della medesima filosofia nichilista. Il nichilismo non agisce soltanto sul piano etico, ma anche su quello sociale, e in entrambi i casi esso manifesta una visione del mondo oscuramente soggettivista e contrattualista. Il nesso tra relativismo etico e relativismo sociale è stato ben compreso dall'allora cardinal Ratzinger quando, nel corso degli anni ottanta del secolo appena concluso, osservava che "il liberalismo economico si traduce sul piano morale nel suo esatto corrispondente: il permissivismo" (cfr. Vittorio Messori, Rapporto sulla Fede, Mondatori, p. 83). La relazione posta dall'attuale Pontefice tra liberalismo e permissivismo corre però, e non potrebbe essere altrimenti, anche in senso contrario, sicché ben può affermarsi che "il permissivismo si traduce sul piano sociale nel suo esatto corrispondente: il liberalismo economico". La lotta anti-relativista del Lepanto, invece, si risolve nell'estrema impostura di chi, ipocritamente, usa la Tradizione, religiosa, teologica, etica, per coprire o favorire politiche liberiste e prassi economiche ispirate al soggettivismo ed all'individualismo.

In altre parole - ed è questa l'accusa principale che viene da noi fatta, da posizioni di cattolicesimo tradizionale, alla destra cattolica conservatrice - il Santo Nome di Gesù Cristo è sporcato a copertura di impresentabili interessi economici, per giunta multi- e transnazionali. E non ci si venga a dire che non è vero, perché è a tutti ben nota la filosofia sociale cui, insieme ad altre realtà catto-conservatrici, si ispira il Lepanto, ossia quella del guru Plinio Correa de Oliveira, l'apologeta del latifondo brasiliano al quale il de Mattei ha dedicato un entusiastico libro, edito dalla Piemme, che lo definiva sin dal titolo, retoricamente ed anacronisticamente, "il crociato del XX secolo".

Durante una manifestazione contro il governo Prodi, di qualche anno fa, i militanti del Lepanto esibivano uno striscione con la scritta: "Proprietà privata diritto naturale". A quale diritto naturale -domandiamo - ci si voleva riferire, dal momento che la concezione "giusnaturalista" della proprietà come intangibile diritto soggettivo individualista è tipica del contrattualismo giuridico moderno, di quello hobbesiano e rousseauiano, come di quello lockiano? Al contrario, se vi è stata un'epoca nella quale la proprietà intesa in senso individualista non è mai esistita questa è stato il medioevo cristiano, durante il quale, infatti, proprietà e possesso erano confuse in figure giuridiche ibride, si conosceva solo la proprietà comunitaria, si limitava il possesso signorile con i più estesi usi civici, si riconoscevano ampi diritti comunitari a favore dei ceti più deboli sulle terre nobiliari. Tutta la resistenza antigiacobina delle popolazioni contadine durante il XVIII e il XIX secolo si spiega non solo con l'opposizione popolare alla cristianizzazione, ma anche con l'opposizione sociale all'eversione rivoluzionaria, mediante privatizzazioni e quotizzazioni, del possesso di tipo comunitario delle terre, in uso da secoli nei paesi di tradizione cattolica. Altro che proprietà come "diritto naturale"!

Proprio il latifondo, che secondo Plinio Correa de Oliveira sarebbe la base materiale delle (presunte) legittime aristocrazie terriere tradizionali, nasce in età moderna a seguito dei processi di secolarizzazione a danno della Chiesa cattolica e dei ceti più deboli da essa sempre difesi.

Possiamo richiamare, in proposito, quanto è accaduto a seguito dello scisma di Enrico VIII, che ebbe tra le prime conseguenze l'esproprio rivoluzionario delle terre ecclesiali, accaparrate da un'avida aristocrazia, spinta dall'interesse ad appoggiare la riforma religiosa, con la rovina dei contadini che da secoli da quelle terre traevano vita e sostegno.

Possiamo ricordare, inoltre, gli espropri rivoluzionari durante e dopo la Rivoluzione francese: le terre erano tolte alla Chiesa e vendute a quattro soldi alla buona borghesia e alla nobiltà di nuovo corso con l'immediato peggioramento delle condizioni di vita dei ceti meno abbienti, che vedevano così aboliti in un solo colpo tutti i loro antichi e consuetudinari usi civici e diritti comunitari esercitati su quelle terre.

E che dire, infine, di quanto accadde proprio nel Sud-America durante le rivoluzioni liberal-massoniche ottocentesche, che ebbero come esito principale sul piano sociale quello della creazione di vasti latifondi terrieri mediante l'esproprio delle terre ecclesiali e l'abrogazione di tutti quei diritti comunitari su di esse esercitati dalle comunità indios, tutelate dalla legislazione risalente al tempo della Corona asburgica, che, insieme alla Chiesa, fu nel secolo XVI, dopo il primo violento impatto tra mondo ispanico e mondo indio, la grande sostenitrice e tutrice dei diritti degli indiani?

Quindi, ogni volta che si difende la proprietà intesa in termini individualisti e soggettivisti non si difende la Tradizione, ma un frutto della Rivoluzione anticristiana, perché il mondo tradizionale conosceva soltanto la dimensione del comune, nella quale non era data una chiara distinzione tra "pubblico" e "privato". Distinzione che, invece, compare, insieme alla concezione individualista della proprietà - cui fece da complementare antitesi la concezione statalista della proprietà - soltanto in epoca moderna e a seguito della Rivoluzione religiosa prima e politica dopo. Dall'insegnamento di Nostro Signore Gesù Cristo, che confermava ed ampliava quello dei Profeti e Patriarchi veterotestamentari, è chiaro che, in base alla Rivelazione ebraico-cristiana, i beni terreni hanno destinazione universale.

La Dottrina sociale cattolica ha sempre sostenuto una concezione "distributivista" - per usare un termine caro ad Hilaire Belloc - della proprietà. Ed è da tale concezione cristiana della proprietà come diritto umano universale ("proprietà per tutti", diceva solennemente Leone XIII), e non élitario, che discende, nelle mutate condizioni storiche poste dalla modernità, lo stato sociale moderno, il cui scopo è quello dell'equa distribuzione dei beni e dell'equo equilibrio interclassista della società. Stato sociale che oggi il liberismo neocons vuole completamente destrutturare, anche propagandando distorte concezioni "orizzontaliste" del principio di sussidiarietà.

Le rivoluzioni massonico-liberali in Sud-America, alle quali abbiamo fatto riferimento, furono il capitolo ottocentesco della storia dell'imperialismo "mistico-missionario" degli Stati Uniti. Secondo il dettato della dottrina del presidente Monroe, tutto il continente americano era da considerarsi come il giardino di casa degli statunitensi: un giardino da mondare dalla presenza degli europei, in particolare se papisti come gli spagnoli. Alla luce dell'antieuropeismo storico degli Stati Uniti, radicato nel loro anticattolicesimo confessionale, parlare di comune "civiltà occidentale" diventa ridicolo. Gli Stati Uniti sono nati e si sono sviluppati in constante polemica con l'Europa, considerata dai coloni puritani la terra dell'oscurantismo illiberale e del papismo. Questa convinzione è stata per gli Stati Uniti un vero e proprio "mito di fondazione" della propria identità.

Un'identità, quella americana, che volutamente nasce in opposizione, innanzitutto per motivi religiosi, all'Europa. Gli Stati Uniti sono l'aborto che ha provocato la morte, per gestazione adulterina ed illegittima, della sventurata madre europea. Sostenere, perciò, come si è fatto sulla rivista di area lepantina prima citata, che a seguito della Dichiarazione di indipendenza i cattolici negli Stati Uniti hanno avuto il riconoscimento dei loro diritti, soprattutto nel sud schiavista (altra "aristocraticoterriera" simpatia levantina - e non solo! -, sulla quale molto ci sarebbe da dire...), non solo è falso, perché la discriminante anticattolica è sempre stata viva e operante negli Stati Uniti e, a detta di Jenkins, lo è tuttora, ma nulla toglie all'anticattolicesimo essenziale della mentalità americana.

Aver sostenuto il latifondo terriero, gli interessi delle multinazionali e i governi militari filo-americani, come hanno fatto note organizzazioni nate dall'attivismo millenarista di Plinio Correa de Oliveira , è il marchio indelebile di subalternità a forze di equivoca ed oscura schiatta, posto da tempo su ampi settori della destra cattolica, non escluso il Centro Lepanto.

Sappiamo dall'insegnamento di Cristo in Persona che l'albero si riconosce dai frutti. Che dire, dunque, di gente, come i lepantini, che pur affermando di essere strenui oppositori del relativismo etico partecipano poi, all'indomani dell'11 Settembre 2001, all'Usa Day, insieme a buddhisti ed organizzazioni gay di matrice filo-americana, esibendo, a fianco di striscioni del tipo "Gays love America" oppure "Lotta continua per gli Stati Uniti - Sofri libero", un proprio striscione sul quale campeggiava il motto massonico (massonico, checché ne pensi Massimo Introvigne), tratto dal dollaro americano, "In God we trust"?

Che dire, a fronte di quello che è stato soltanto un atto terroristico contro gli Stati Uniti e non un'aggressione ad una "civiltà cristiana" ormai inesistente da secoli, delle dichiarazioni del de Mattei, sul quotidiano Libero dell'11 novembre 2001, che giustificava la partecipazione del Lepanto all'Usa Day in nome della difesa, appunto, della "civiltà cristiana", identificata con l'America?

E che dire di quanto, nella stessa sede giornalistica, affermava ancora de Mattei sulla "civiltà occidentale cristiana" aggredita non solo dall'islam ma dal relativismo del mondo cattolico se non, verrebbe da dedurne, che il rifiuto del relativismo sembra motivato nei lepantini soltanto dal pericolo da esso costituito per la politica globale dell'amato Zio Sam?

Che dire poi dell'attività di lobbyng che il presidente del Centro Lepanto ha fatto a suo tempo, sul quotidiano lib-lab "Il Riformista", diretto da Antonio Polito, ex corrispondente da Londra di "Repubblica", a favore di Blair, in nome di un'anglofilia cara, per l'appunto, al Centro Lepanto?

L'anglofilia dei lepantini ha radici nella loro simpatia per quei valori "pre-illuministi", risalenti al pensiero di Locke ed oggi rappresentati dai neocons di Bush.

Sono per l'appunto questi "valori" a costituire il credo della "loggia occidentale" di "rito jacksoniano", ossia della massoneria "di destra" alla quale facevamo riferimento nel nostro articolo sul primo numero su "Alfa e Omega". No! Noi cattolici, se vogliamo davvero essere tali e non degli illusi "cristianisti", usati in senso speculare agli "islamisti" da coloro che conducono il gioco dello "scontro di civiltà", non possiamo diventare, pur dichiarandoci formalmente indipendenti, nei fatti subalterni al bengsoniano imperatore del mondo a "stelle e strisce". Noi cattolici non dobbiamo alcuna riconoscenza agli Stati Uniti per quanto avrebbero fatto o starebbero facendo per noi. Esempi di ciò che gli Stati Uniti, intrepidi difensori della "civiltà cristiana", hanno fatto per il Cattolicesimo sono dati, giusto per citare qualche dato storico, dalla tentata protestantizzazione dell'America Latina, dalla tentata decattolicizzazione delle Filippine, dall'aiuto al governo massonico messicano per la repressione dell'insorgenza dei Cristeros negli anni venti del XX secolo, e via dicendo. Ragioni di spazio ci impediscono di allungare la lista.

Il motivo essenziale per il quale abbiamo scritto gli articoli, che hanno urtato la suscettibilità di Bernabei, è stato quello di avvertire i cattolici tradizionali del pericolo neocons: non vorremmo che dopo i "cristiani per il socialismo" ci ritrovassimo tra i piedi i "cattolici per il bushismo".



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