La deriva neoconservatrice della destra cattolica

IV parte
 

di Luigi Copertino
pubblicato qui marzo 2005



Per agevolare la lettura, questo articolo di Luigi Copertino è stato diviso in cinque parti più l'introduzione di Miguel Martinez.

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All'introduzione





Premessa

Origini, sviluppo ed egemonia di un’ideologia rivoluzionaria. L’aggressione neocon allo Stato sociale europeo.

E’ stato notato che la dottrina neoconservatrice sulla guerra preventiva ed unilaterale manifesta, rispetto all’ordine internazionale previgente, una carica eversiva radicale analoga a quella della dottrina internazionalista sovietica la quale dichiarava l’Unione sovietica, in quanto rappresentante di tutti i lavoratori del mondo, unico Stato legittimo al cospetto di tutti gli altri di per sé stessi illegittimi perché “Stati borghesi” (12) .

A questo punto sovviene il forte sospetto che quella neoconservatrice sia un’ideologia rivoluzionaria piuttosto che “conservatrice”, nel senso classico della parola. In effetti, come ha rilevato Franco Cardini, l’etichetta “conservative” si addice molto poco a quella che piuttosto appare come “una nuova destra agile, spregiudicata, proiettata in avanti, nostalgica del futuro, che deve alla sua eredità di sinistra la sua voglia di cambiare il mondo anziché di star a contemplarlo e alla sua vocazione il desiderio di possederlo appieno, d’informarlo, di risplasmarlo a sua immagine e somiglianza.” (13)

I neoconservatori americani sono dei liberal assaliti dalla realtà, ossia intellettuali passati dall’utopia democratico-pacifista al cinismo decisionista-bellicista, e nella loro aspirazione a cambiare il mondo mediante l’esportazione universale del presunto “migliore dei sistemi possibili”, ossia la democrazia elitaria americana, si rinviene, non solo un “delirio giacobino” come ha osservato Sergio Romano, ma anche una profonda assonanza filosofica con il vecchio principio marxiano che attribuiva appunto alla filosofia il compito di trasformare il mondo rinunciando alle domande fondamentali sull’essere e sull’esistenza.

I neoconservatori americani, in questo affini ai libertarians o anarcoliberisti, mutuano dalla filosofia marxiana anche l’avversione assoluta verso lo Stato. Lo Stato, infatti, è da essi inteso, anche in tal caso secondo una prospettiva marxiana, come “sovrastruttura autoritaria” e viene condannato perché con il suo limite territoriale è di ostacolo ad un ordine economico transnazionale che consegni l’umanità, sotto l’egemonia americana, non ad una giusta ed equilibrata modernizzazione, che apporti ad essa condizioni di vita dignitosa in un onesto ma modesto benessere, ma al sogno prometeico e millenarista della “fine della storia” e della “pacifica prosperità globale”.

Questo sogno, che fu già proprio dell’internazionalismo marxista, è ricomparso oggi nella forma dell’utopia liberista del mercato mondiale, e costituisce, per coloro che hanno orecchi per intendere e occhi per vedere, la nuova versione dell’antica luciferina promessa di autodivinizzazione dell’umanità (“Eritis sicut Dei”).

L’ideologia neoconservatrice è l’anima del turbocapitalismo iperconcorrenziale e globale, oggi egemone, che ha per obiettivo quello di abbagliare l’uomo con i luccichii delle sue vetrine sfavillanti facendogli dimenticare le realtà eterne ed il suo destino finale di salvezza o dannazione.

L’uomo dell’età della globalizzazione turbocapitalista, stimolato alla conquista materiale del mondo, è costretto ad una vita di iperattivismo frenetico che non lascia spazi alla preghiera, alla meditazione, ai valori familiari, con quali conseguenze di dissoluzione psichica e sociale lo apprendiamo dalle cronache quotidiane ridondanti di omicidi-suicidi e di depressioni-ossessioni a sfondo sadomasochista ed orgiastico. Anche questo iperattivismo tradisce la propria origine marxiana nel principio, appunto, marxista del primato della prassi sull’Essere.

Di fronte alla situazione di lucida follia epilettica nella quale l’umanità sta precipitando, trascinata dal turbocapitalismo globale, diventa imprescindibile, soprattutto da un punto di vista cattolico, difendere, oggi, quel che, ieri, è stato il nemico dell’Ecclesia Universalis ossia lo Stato nazionale.

Ha scritto Franco Cardini molto opportunamente: “…il tema della dissoluzione dello Stato, e dello Stato-nazione in particolar modo, è fondamentale al giorno d’oggi. Un’altra funzione dello Stato nazionale moderno, specie da quando si è conquistata e accettata la dimensione di Stato sociale - una delle più grandi conquiste del Novecento, è stato detto – è quella del riequilibrio delle sperequazioni sociali, della riduzione delle ingiustizie, dell’eliminazione dalle fasce più deboli di quel livello d’indigenza che obbliga a vivere al di sotto di uno status dignitoso.

Nell’Europa del XX secolo esso è stato sostanzialmente raggiunto dappertutto e sotto qualunque sistema politico: liberaldemocratico, fascista, socialista. Lo stesso non si può dire di tutto il resto del mondo: Stati Uniti compresi, a causa delle sacche di penosa miseria che vi permangono.

Lo Stato sociale non punta certo all’uguaglianza ma si occupa di compensare le sperequazioni, ridistribuire in parte la ricchezza, eliminare la miseria, fornire a tutti un minimo di sicurezza sul piano almeno della salute e dell’anzianità, assicurare il diritto all’istruzione di base,…, dar fondamento credibile a un patto sociale che consenta la decente convivenza tra classi sociali differenti e quindi un ordine che non sia solo quello costrittivo, di polizia.

Per questo non si può non mostrarsi preoccupati dinanzi ai sintomi della … crisi…della sovranità degli Stati nazionali, minacciata dall’esistenza degli organismi internazionali e sopranazionali al di sopra di essi, dall’insorgenza d’istanze variamente autonomistiche quando non separatistiche al di sotto o dall’interno e, infine, dalla crescente importanza di realtà che in qualche modo ne limitano l’azione nell’atto stesso in cui contribuiscono a renderla magari più funzionale ed efficace (e alludo per esempio alle Organizzazioni Non Governative e alle varie applicazioni del cosiddetto principio di sussidiarietà).” (14 )

Uno dei problemi più gravi che si pone al mondo cattolico è quello di comprendere che il “principio di sussidiarietà” - un tempo, quando lo Stato giurisdizionalista era il nemico principale della Chiesa, caposaldo della Dottrina Sociale Cattolica - deve essere rielaborato tenendo conto che esso è oggi diventato il cavallo di battaglia delle pulsioni antistuatualiste, privatrizzatrici e liberiste. Infatti, nella sua versione “orizzontale”, la sussidiarietà tende verso una socialità reticolare, contrattualista e transnazionale.

Tuttavia, della cosiddetta “sussidiarietà orizzontale” non c’è traccia nei documenti del Magistero sociale dei Pontefici. E’ necessario, pertanto, riaffermare l’originaria formulazione verticale della sussidiarietà, come ben espressa da Pio XI nell’enciclica Quadragesimo Anno (paragrafo 81, dove si parla di “ordine gerarchico tra le diverse associazioni”), in base alla quale, ad esempio, al contrario di quel che accade attualmente nell’U.E. organizzata sul modello monnetiano dell’Europa delle Regioni, si dovrebbe sempre rispettare l’intangibilità della gerarchia dei livelli istituzionali esistenti tra l’ organizzazione sopranazionale, ossia l’Unione Europea stessa, e gli Stati nazionali e gli enti locali infrastatuali, evitando di porre questi ultimi in diretto contatto con i livelli sopranazionali e, transnazionalmente, con gli enti locali interni ad altri Stati nazionali.

Il neoconservatorismo ha assunto una visibilità pubblica mondiale con la presidenza Bush ma in realtà esso è frutto di un lungo processo di elaborazione culturale.

Il pensiero neoconservatore muove i suoi primi passi verso l’egemonia culturale agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso quando lo Stato sociale e l’economia keynesiana entrano in crisi per l’eccessiva spinta inflazionista causata dalla spesa pubblica fuori controllo per via dell’uso strumentale e demagogico dei principi keynesiani effettuato dalle classi politiche occidentali a scopo bassamente elettoralistico. Il neoconservatorismo, mano a mano che lo “statalismo” sprofondava verso la paralisi, diventò egemone, propugnando il liberismo nella sua versione più dura e preparando le successive vittorie politiche di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan.

In quanto sistema di pensiero il neoconservatorismo può farsi risalire perlomeno alla fondazione, nel 1947, per iniziativa di Friedrich August Von Hayek, il padre della liberista Scuola di Vienna, della “Mont-Pélerin Society”, una sorta di “massoneria liberista” che riuniva, oltre allo stesso Hayek, personaggi come Karl Popper, il teorico della “società aperta”, Walter Lippmann, portavoce giornalistico dei poteri forti americani, Salvador de Madariaga, filosofo liberalconservatore ispanico, Ludwig Von Mises, economista liberista della Scuola di Vienna, Milton Friedman, il noto economista neomonetarista all’epoca agli esordi universitari, Maurice Allais, futuro premio nobel e, tra i padri nobili del pensiero neoconservatore, l’unico che ha corretto criticamente le sue antiche posizioni per abbracciare le sue odierne coraggiose posizioni di spietato critico del liberoscambismo globale.

Lo scopo di tale “setta” era quello, poi riuscito, di preparare l’ état d’esprit necessario affinché l’ideologia neoconservatrice, che a conti fatti rappresenta l’esito nichilista del pensiero liberalconservatore classico, diventasse egemone in occidente. Il programma di destrutturazione liberista delle società europee ed occidentali, propugnato dal neoconservatorismo, ebbe modo di prendere corpo nel corso degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso quando, con la comparsa delle nuove tecnologie informatiche e telematiche, diventarono possibili, in termini globali, la delocalizzazione del lavoro e l’esplosione della frenesia concorrenziale.

Iniziò così, in quegli anni, a delinearsi una trasformazione sociale che comportò la progressiva destrutturazione della grande impresa, lo sviluppo delle piccole e piccolissime imprese, la “terziarizzazione” e la “finanziarizzazione” dell’economia. Fu quella l’epoca dolorosa della crescita esponenziale dell’espulsione della forza lavoro dai processi produttivi ormai sempre più automatizzati. Per tutto il decennio degli anni Ottanta del XX secolo si è assistito all’aumento vertiginoso dei processi di “esternalizzazione” delle attività non più riconducibili, per via dell’ingresso delle nuove tecnologie, al core business aziendale, anch’esso sempre più ristretto mano a mano che le medesime innovazioni tecnologiche lo consentivano.

Le conseguenze sociali di questa ristrutturazione dei processi produttivi non tardarono a farsi sentire in termini di richiesta di maggior flessibilità ed autonomizzazione del lavoro che diventò sempre più individuale e precario, fino alla comparsa delle più variegate forme di lavoro atipico dai “co.co.co.”, al “lavoro interinale”, al “lavoro a chiamata”, al “lavoro temporaneo” e via fantasticando.

Emerse, sull’onda della destrutturazione dello Stato nazionale e sociale promossa dal pensiero neoconservatore, un’economia “nichilista” che si esprime nella distruzione del lavoro stabile ed a tempo indeterminato (negli Stati Uniti, soltanto nel gennaio 2001, sono stati distrutti quasi 2,7 milioni di posti di lavoro dipendente sostituiti da forme di lavoro precario) fino al paradosso, denunciato da molti economisti come fenomeno mai prima registrato nella storia economica dell’umanità, dell’aumento della produzione cui non consegue aumento dell’occupazione stabile.

L’economia post-industriale, alla quale l’ideologia neoconservatrice insieme alle nuove tecnologie ha aperto la strada, produce ricchezza facile, immediata, immateriale e per questo però volatile ed illusoria, come i recenti crack di multinazionali sul tipo della americana Enron e dell’italiana Parmalat hanno dimostrato con la rovina di masse di ingenui risparmiatori e di ignari lavoratori.

Il modello economico turbocapitalista anglo-americano è riuscito, a causa dell’abbattimento globale delle frontiere nazionali, a vincere in competizione con il modello europeo-continentale molto più attento alle esigenze sociali e nazionali. Quello europeo-continentale, infatti, è un modello che tende alla stabilità perché è nato in una cultura antica e millenaria che ha saputo sviluppare una modernità “sociale”.

La globalizzazione liberista, invece, nasce e si sviluppa in una cultura - quella anglo-americana – giovane, senza storia e senza radici, nomade e per questo tendente alla dissoluzione di ogni legame e vincolo sociale. La globalizzazione è barbarie nichilista di fronte alla quale un pensiero veramente e sanamente “conservatore”, e pertanto per definizione difensore della stabilità sociale, dovrebbe ritrarsi inorridito.

Cosa questa che prova ancora una volta, laddove ve ne fosse bisogno, che quello neocon, con la sua simpatia per l’unilateralismo bellico in politica e per il duro liberismo globale in economia, non è un vero pensiero conservatore, ma al contrario costituisce una ideologia nichilisticamente rivoluzionaria nel senso descritto da Dostoevskij ne I Demoni. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito, storicamente, il processo di razionalizzazione del sistema produttivo è sempre stato connotato da profonde differenze rispetto all’Europa continentale e non è mai veramente giunto, per via della mancanza di una tradizione étatiste, alla concezione dello Stato sociale come conosciuto da Germania, Italia, Spagna, Francia etc.

Le radici prevalentemente cattoliche dell’Europa continentale hanno reso possibile la recezione nella legislazioni sociali di tali Stati del principio cristiano enunciato da Leone XIII, nella Rerum Novarum, secondo il quale “il lavoro non è merce” cui fa da corollario l’altro fondamentale principio, anch’esso enunciato nella citata enciclica, della “giusta mercede”.

Sulla base di tali principi, nel corso del XX secolo, gli Stati nazionali consolidarono la propria sovranità anche sul piano sociale ed economico attraverso il controllo pubblico del mercato del lavoro, la razionalizzazione del sistema di produzione e di circolazione della ricchezza, la composizione dei conflitti e delle tensioni sociali legati al processo di industrializzazione. In tal modo in Europa si affermò, durante il secolo scorso, l’idea che salari più alti, limitazioni dell’orario di lavoro, riconoscimento dei sindacati, politiche interclassiste, abolizione del lavoro minorile ed interventi sociali analoghi avrebbero permesso di contenere la disoccupazione, attenuare le tensioni sociali, innalzare il potere d’acquisto generale.

Onde consentire il raggiungimento di tali obiettivi, in un clima di competizione politica ed economica internazionale, si concordarono strategie comuni tra gli Stati nazionali. Oggi la globalizzazione, avendo esautorato lo Stato nazionale come soggetto politico e di diritto ed avendo imposto, nell’illusione di disciplinare il mercato globale, organizzazioni transnazionali, controllate da poteri economici multinazionali, impedisce qualsiasi codificazione di un diritto sociale interstatuale. Non si stipulano più accordi bilaterali o plurilaterali tra Stati per la regolazione delle tutele di Welfare, in modo da rendere omogenei i costi sociali e di produzione delle diverse economie nazionali che si trovano a competere sul mercato internazionale e in modo da impedire forme di scambio ineguale e di reciproca concorrenza selvaggia. In nome della globalizzazione si mettono in concorrenza mercati a garanzia sociale avanzata con mercati semischiavistici costringendo i primi ad abolire il Welfare anziché i secondi ad adeguarsi ai livelli di socialità dei primi.

Dal punto di vista cattolico, e purché non si giudichi soltanto sotto il profilo del Pil o della sola efficienza economica, come fanno i liberisti, è preferibile un’economia più stabile e meno dinamica sul modello del “capitalismo sociale”, ossia dell’economia mista pubblico-privato nella quale lo Stato interviene per dirigere oltre che per regolare e controllare a fini sociali il mercato, raccomandato dalla Dottrina Sociale Cattolica.

Un modello storicamente realizzato, in Italia, a partire dagli anni trenta del secolo scorso, per iniziativa del regime fascista, e sviluppato, senza soluzioni di continuità nonostante il cambio di regime politico, nel dopoguerra dai governi a maggioranza democristiana, fino a quando ad iniziare dagli anni ’80 il neoliberismo ha aperto le porte al disumano, oltre che non cristiano, turbocapitalismo.

Ora che il liberismo, soprattutto per via delle politiche deflazioniste imposte ai governi dalle Banche Centrali di tutto il mondo e per via della deregulation degli scambi che ha consentito la finanziarizzazione dell’economia a scapito della produzione, sta dimostrando tutta la sua inconsistenza, perché invece che il benessere planetario ci ha dato ripetute recessioni, che sembrano preludere ad una ancor più grave depressione sul tipo di quella del 1929, la condizione dell’uomo postmoderno, ingannato dallo sfavillare delle vetrine luccicanti del mercato globalizzato, si va facendo ancor più tragica dal momento che l’iperattivismo frenetico al quale è stato condannato gli diventa necessario non più per conquistare quanto più illusorio e volatile benessere possibile ma addirittura per sopravvivere.

Infatti davanti ai suoi increduli occhi va gradualmente, ma recentemente con una inusitata velocità, scomparendo il miraggio della facile sovrabbondanza a portata di mano mentre si manifesta la sempre più palpabile realtà della precarietà del lavoro, della disoccupazione di massa e di un mondo nel quale i due terzi dell’umanità dovrà sopravvivere senza certezze in nome della flessibilità e un terzo, e forse anche meno, quello “che conta”, ossia il gotha tecnocratico e finanziario del mondialismo, vivrà, finché Dio non giudicherà colma ogni misura, nella sicurezza di un mondano paradiso dorato.

La hybris gnostica, quella dell’umanità prometeica che nella sua superbia autodivinatoria disconosce ogni limite ed ogni autocontrollo etico, già in passato vera anima della modernizzazione, ha oggi rotto tutti gli argini a suo tempo posti per frenare il dilagare delle più oscure pulsioni umane, quelle stesse che si vanno manifestando nell’orgiastico e necrofilo turbocapitalismo globale. Giustamente Franco Cardini definisce la globalizzazione “totalitarismo liberistico” (15).

NOTE


12) Maurizio Blondet, Chi comanda in America, Effedieffe, Milano 2002, p. 165.

13) F. Cardini, Astrea e i Titani. Le lobbies americane alla conquista del mondo”, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 114.

14) Idem, pp. 144-145.

15) Idem, p. 155.



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