Etica ed economia
Una critica radicale a Michael Novak e ai teocon

terza parte
 

di Oscar Nuccio



Alla nota introduttiva




3. L'ideologia (pangermanista) di Max Weber e la storia delle origini del capitalismo

La storia contenute nelle pagine della gettonatissima opera del sociologo tedesco - che ha avuto centinaia di edizioni in tutte le lingue, che viene tuttora adottata, incredibile a credersi, nei corsi universitari di storia (lo è nella Facoltà di Scienze Politiche della romana "Sapienza") - è una storia che nasce viziata a causa del metodo della "astrazione" adottato dall'autore. Metodo in auge presso gli economisti nell'epoca in cui egli scrisse e che poteva rendere servigi allo studioso "puro", ma non era utilizzabile per una ricerca storica complessa quale appunto quella concernente la formazione e la crescita del capitalismo occidentale.

Weber poteva certamente isolare e studiare a parte, nella storia tanto complessa, "eppure così fortemente unitaria, dell'Occidente moderno, una linea di sviluppo particolare: la società industriale capitalistica, ed isolare come ipotesi, un punto di partenza, l'epoca della Riforma, purché la si consideri nel suo complesso e nel suo tempo con tutte le implicazioni e le sue ripercussioni, non come un fatto di dottrina e di fede". Lo storico ed il sociologo non possono ammettere che "ci si impadronisca di un libro mastro invocante la benedizione di Dio, addirittura ornato di un esordio invocante la benedizione di Dio, e che si esclami: ecco come Calvino ha creato il capitalismo!" (H. Lüthy).

Il metodo weberiano dell'"isolamento atomistico" - definito anche "semplicistico" da H. Sée - non può non portare alla semplificazione, appunto, di un fenomeno storico complesso, giacché: mediante "isolamento ed enfatizzazione, considera come rilevante, da un determinato angolo visuale, un fattore ivi contenuto, afferma la sua azione sull'ulteriore corso dello sviluppo storico"; reifica, tendenzialmente, questo fattore determinato del fenomeno storico dato (E. Fischoff).

A causa di questi ed altri difetti il metodo del sociologo tedesco, lascia spazio all'arbitrio personale, nella scelta e caratterizzazione del singolo fatto storico, astratto da tutti gli altri, i quali invece devono essere esaminati e vagliati per decidere se hanno concorso o meno alla formazione del fenomeno. E perciò il metodo weberiano non consente di determinare il grado della azione da attribuirsi ai diversi singoli fattori. Infatti il metodo "tipico-ideale" trascura il coefficiente del tempo, o almeno rende difficile "la formulazione di sequenze temporali, poiché implica una considerazione telescopica della realtà storiografica".

Non soltanto viziato il metodo ma anche strumentalizzato ai fini della costruzione del celebre e lodatissimo saggio (ne ricorre il centenario) il cui punto di partenza, per così dire, fu la ricerca del suo allievo Martin Offenbacher (La posizione econonica dei cattolici e dei protestanti nel granducato di Baden, regione nella quale il 61% di cattolici viveva insieme al 37% dei protestanti ed al 2% di ebrei). Questa si propose di dimostrare che i protestanti detenevano una parte più che proporzionale del patrimonio mobiliare, delle posizioni dirigenti della economia urbana e fornivano una percentuale più che proporzionale degli alunni delle scuole superiori, delle professioni liberali, degli ufficiali delle forze armate, dei funzionari dell'amministrazione pubblica, ed ancor più della manodopera qualificata.

Dal vago quadro statistico dell'allievo il sociologo tedesco colse e mise in evidenza l'unico punto avvalorante le sue conclusioni formulate preventivamente e scartò il resto. Così che fin dall'inizio egli alterò i dati del problema, per ragioni sostanzialmente ideologiche (come più avanti illustrerò), con notevoli conseguenze per gli sviluppi della discussione.

La struttura delle correlazioni statistiche utilizzate ad arte da Weber, che ha preso come punto di partenza la situazione scolastica del Baden, è fondata sul semplice, evidente fatto che in alcune città a maggioranza protestante in un paese prevalentemente cattolico, la percentuale degli studenti protestanti è superiore a quella dei cattolici. Se consideriamo - ha rilevato Kurt Samuelsson - le varie località separatamente dalle altre ed in ciascuna paragoniamo la confessione religiosa degli studenti con quella della popolazione complessiva, giungiamo alla semplice inoppugnabile constatazione che cattolici e protestanti mostrano la medesima "attitudine scolastica". La differenza appartiene al mondo della fantasia.

L'assunto del sociologo autore della paradossale equazione - accettato ed avallato da schiere di sociologi e di storici orecchianti - costituisce una inaccettabile generalizzazione dal punto di vista metodologico, a prescindere dalla concreta realtà storica. Quei due eventi "sono così vaghi, così generici che non si prestano ad alcuna rappresentazione basata sulla tecnica delle correlazioni" (K. Samuelsson).

È lecito congetturare che per Max Weber - da Ferdinand Braudel definito "asino in cattedra" (intervista a Il Mondo del primo aprile 1985) - la correttezza metodologica avesse scarsa o nulla importanza dal momento che ciò che per lui aveva reale e primario valore era il fine da realizzare, fine ideologico, che ispira e motiva tanta parte della ricerca germanica degli ultimi decenni dell'800 e dei primi del '900.

Alcuni anni prima di mettere mano a L'etica protestante, egli aveva condotto una indagine sulla "polonizzazione" progressiva del proletariato agricolo nelle province prussiane ad est dell'Elba. Essa fu in sostanza un atto di accusa levato contro il tradimento nazionale dei signorotti di campagna prussiani i quali - facendo appello alla manodopera straniera (oggi diremmo alla manodopera extracomunitaria) meno esigente dei cittadini tedeschi - "sgermanizzavano" l'Est germanico.

Pangermanista appassionato , compreso della missione mondiale della Germania imperiale ed ossessionato dall'incubo della sua decadenza (H. Lüthy), Weber strumentalizzò ideologicamente lo scritto sulle origini dello spirito del capitalismo al quale diede una importanza "personale". Importanza "politica", certamente, una volta accertato che la politica aveva ruolo primario nella visione del sociologo per il quale la sopravvivenza del capitalismo e di una borghesia imprenditoriale indipendente costituivano una condizione necessaria per la realizzazione di valori politici. Sembra dunque legittimo concludere che in una fase delicata della sua esistenza egli "elesse il rapporto tra cristianesimo riformato e la genesi del capitalismo moderno a tema della ricerca" (G. Poggi).

Il rapporto - o "paradossale equazione funzionale" - era conforme allo "scopo" prefisso (avrebbe detto Maffeo Pantaleoni, anch'egli reo di essersi posto uno scopo prefissato per esporre i caratteri del "suo" medio evo e quelli della "sua" età moderna). Lo scopo del sociologo germanico fu di sostenere che la "valorizzazione della vita del mondo come compito sarebbe stata impossibile in bocca ad uno scrittore medievale". Sciocchezza, questa, ripetuta da decine di storici di ogni nazionalità: per esempio, dall'inglese R. Tawney e dallo statunitense R. Heilbroner, omettendo di citare gli accademici italiani, meri rimodellatori di falli altrui (mi sia consentito rimandare al mio citato Falsi e luoghi comuni della storia).

Eliminato il medio evo, ai fini della determinazione temporale della nascita dello spirito del capitalismo, l'indagine viene portata sul Cinquecento che avrebbe "eruttato" (il verbo enfatico è di Heilbroner) il "mondo moderno" e concentrato sulla società germanica, in particolare, e quella nord-europea, in generale, dove si era affermata la Riforma.

Ciò stabilito assiomaticamente, il resto della ricerca (si fa per dire) poteva procedere sui binari sicuri, tranquilli e rassicuranti dell'ideal tipo, del tracciato sociologico tracciato per via di astrazione al fine di giungere a mettere in piedi modelli semplici e funzionali agli aspetti esenziali del corso storico. Nel tentativo di rendere questi modelli aderenti alla realtà, Weber perdette l'esigenza di definizioni precise altrimenti non avrebbe potuto impiegarli per interpretare la realtà.

Con arbitrio e scarsa aderenza ai fatti storici ha esagerato pretestuosamente le differenze tra il mondo protestante ed il mondo cattolico, laddove queste esistono, ed ha creduto di individuare ulteriori differenze dove assolutamente non sono e tutto questo per avere egli fatto una "ricostruzione a posteriori" dei fatti e delle idee, prendendo come punto di avvìo il destino ulteriore delle denominazioni e delle sette protestanti; queste sono il risultato del fallimento della Riforma come movimento spirituale.

Se la ricostruzione viene fatta - come io ho fatto nei cinque tomi de Il pensiero economico italiano grazie ai quali ho potuto seppellire sotto pesante pietra tombale, ha scritto l'economista Marco Vitale, l'equazione weberiana - si dimostra che il protestantesimo non ha prodotto alcuna "svolta della storia" anche per il fatto che il Cinquecento non eruttò - checché abbia scritto Heilbroner e ripete banalmente l'accademico italiano Riccardo Faucci - il mondo moderno che aveva visto la luce, in verità, molto prima, della qual cosa si sono accorti oggi anche i medievalisti statunintensi, dando l'annuncio della "rivoluzionaria", si fa per dire, scoperta storica, sui verdi prati dei campus bostoniani (come radiosa ed esultante narra l'accademica milanese Maria Teresa Fumagalli Beonio Brocchieri sul foglio de "Il Sole-24 Ore", 24 giugno 1996).




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