Per agevolare la lettura, questa storia della scuola italiana è stato diviso in venticinque parti.
All'introduzione
Alla parte successiva

LA SCUOLA NELL'ITALIA PREUNITARIA DELLA RESTAURAZIONE

Nonostante ciò che vado dicendo, non si deve pensare che vi fosse un qualche miglioramento sostanziale in termini di quantità di persone interessate al processo di scolarizzazione. La situazione economica generale per un esercito di persone era la miseria più nera ed il degrado totale. I cambiamenti nei modi di produzione, dall'agricoltura alle prime industrie, spostano grandi masse dalle campagne alle periferie delle città. I lavori sono i più degradanti e riguardano lo sfruttamento dei bambini a partire da 4 (quattro!) anni, bambini utilizzati in lavori di fatica in miniere ed in industrie per orari di lavoro che arrivavano alle 15 ore. Neppure parlare di una qualche assistenza. Chi perdeva il lavoro era destinato a morire di fame, chi si ammalava lo stesso. In questa situazione che vedeva tra questa gente un analfabetismo vicino al 100%, pensare a scolarizzare era utopico. Dove la scuola esisteva era in mano alla Chiesa, era bassamente professionale, era bigotta e imbevuta di fanatismo, con maestri scelti perché incapaci di altro lavoro e privi di ogni preparazione e spesso di ogni morale (il problema della difesa dei bambini dagli abusi di ogni tipo venne affrontato dal pedagogista tedesco Froebel che inventò e costituì - 1839 - i primi giardini d'infanzia in gran parte affidati a donne, aprì all'educazione prescolastica ed alla conoscenza dei bambini nei loro processi evolutivi; è inutile dire che tali realizzazioni dovettero scontrarsi con i restauratori del dopo 1848 che le cancellarono). Ma sulla strada di non comprensione dei problemi si posero anche i pedagogisti romantici (tra cui Pestalozzi) che in modo fantasioso pensavano che la scolarizzazione avrebbe migliorato la società. A nessuno di questi venne in mente che la scolarizzazione sarebbe potuta andare avanti di pari passo solo in cambiate situazioni economiche.

Anche quelle poche iniziative del periodo rivoluzionario e napoleonico, vennero cancellate dai governi e sovrani restaurati. Si riaprirono le porte ai gesuiti ed alle varie congregazioni religiose e l'istruzione popolare passa a loro con in più il fatto che lo Stato riconosce come sua l'attività educativa pubblica e quindi inizia a finanziare le scuole anche se confessionali. Si realizza così anche nella scuola la cogestione tra potere del sovrano e potere clericale ma quest'ultimo squalificato a rango di servizio piuttosto che esaltato come riconoscimento del valore educativo della Chiesa. Di questo si rendono conto i curiali che, alla ripresa dei moti rivoluzionari nel 1830 si schiereranno con i liberali (!) che rivendicano libertà di insegnamento contro le ingerenze ed il controllo dello Stato autoritario. Osserva Geymonat [1] che:

la lotta per la libertà d'insegnamento (...) è una disputa nella quale il significato dei termini è usato equivocamente dalle varie parti. Libertà di insegnamento, infatti, può significare:
a) facoltà per enti e privati di istituire scuole ed istituti di educazione.
b) facoltà per il docente di insegnare con la massima libertà di coscienza, di orientamento ideologico, di metodo;
c)Impegno della scuola ad innalzare il livello culturale, morale, civile delle masse, inculcando negli alunni lo spirito di tolleranza, il rispetto delle opinioni altrui, la pratica della libera discussione, la ricerca e la conquista della verità anche attraverso l'errore; in breve: formando delle teste pensanti e non semplicemente delle teste ricettive del pensiero altrui.

e su queste differenze di significato che se si sceglie una accezione se ne escludono altre nascerà un equivoco che ancora oggi è ben presente.

Ma passiamo a vedere la condizione scolastica nei vari Stati italiani preunitari nel periodo della Restaurazione.

Stato Pontificio

Con la Restaurazione, lo Stato Pontificio si era riprese le Marche e la Romagna. Quindi anche in zone dove si era fatto un qualche passo avanti si ritornò indietro. Aveva iniziato (1816) Pio VII a ridare il monopolio dell'educazione ai gesuiti con il fine di creare delle coscienze passivamente obbedienti alla Chiesa. Le scuole primarie (parrocchiali) gratuite erano molto poche, le paghe ai maestri erano ridicole, si insegnavano nozioni strumentali con l'esclusione della storia profana e di ogni scienza. Vi erano poi scuole regionarie private a pagamento (che saranno regolate nel 1825). Inoltre molte attività caritatevoli private insegnavano a leggere ed il catechismo (e lavori femminili alle giovanette, ma non a leggere; chi avesse voluto farlo doveva chiedere dispensa alla parrocchia). Nel 1819 si iniziò (Pesaro e Spello) l'esperienza del mutuo insegnamento (vedi oltre).

Con l'elezione di Papa Leone XII scomparve quasi ogni retaggio della dominazione francese; egli tentò con ogni mezzo di ripristinare le antiche consuetudini, confermando e aumentando il potere ecclesiastico, negò la libertà di stampa e con la bolla Quod Divina Sapientia Omnes Docet (una rielaborazione aggiornata di quanto affermato nel Concilio di Trento) promulgata nel 1824 riduceva ogni forma di istruzione sotto l'esclusivo controllo del clero. Alla bolla si allegava una Constitutio de recta ordinatione studiorum in ditione ecclesiastica che forniva varie regole di una presunta riforma scolastica che riguardava soprattutto l'università, non occupandosi né di scuole secondarie né della formazione degli insegnanti e fornendo solo alcune norme di carattere generale per le scuole primarie. La Constitutio prevedeva che tornasse obbligatorio lo scrivere e il parlare in latino, che non avesse spazio alcuna materia di ordine pratico, ma dominasse incontrastato l'insegnamento del pensiero metafisico. Veniva negata l'istruzione tecnica, scientifica, ginnica e militare, non permessi i congressi scientifici. Venivano chiuse le scuole di mutuo insegnamento.
Con la Constitutio papale, oltre al riordino delle università con la suddivisione in quelle di seria A (Roma e Bologna) e quelle di serie B (tutte le altre),  [3]

 fu istituita la Congregazione degli studi, che presiedeva a tutte le scuole esistenti nello Stato Pontificio, pubbliche e private. Le disposizioni relative erano le seguenti: i vescovi presiedevano alle scuole elementari, e delegavano in ogni Comune un ecclesiastico per la immediata loro vigilanza. I deputati del vescovo dovevano alla fine di ogni anno scolastico riferire sullo stato delle scuole. Era fatto obbligo ai vescovi di visitarle, vacando un posto d'insegnante nelle scuole comunali, il magistrato del luogo bandiva il concorso e sceglieva persone capaci per esaminare i concorrenti. L'esame si faceva alla presenza del magistrato e di un deputato del vescovo. Dopo l'esame si riuniva il Consiglio comunale, con l'intervento di quest'ultimo, ed ascoltati gli esaminatori, si procedeva, da parte del Consiglio stesso, alla nomina a maggioranza di voti segreti. Spettava al solo vescovo confermare in avvenire i maestri eletti. La conferma o l'esclusione da parte dei Consigli si faceva alla fine di ogni biennio nel mese di agosto di ciascun anno.
Il licenziamento fuori termine poteva aver luogo su proposta dei consigli Comunali, i quali dovevano rivolgersi al vescovo, che aveva facoltà di sospendere il maestro, rinviando poi il caso alla sacra Congregazione degli studi per le ulteriori determinazioni. Il vescovo di propria autorità aveva il potere di procedere alla sospensione dell'insegnante, senza che il Consiglio potesse impugnarla o metterla in discussione, salvo la facoltà di ricorrere alla S. Congregazione.
L'anno scolastico iniziava il 5 novembre e terminava il giorno 20 settembre. Per Natale le vacanze duravano dal 24 dicembre a tutto il 1° gennaio; per Carnevale, dal sabato che immediatamente precede la domenica di sessagesima a tutto il giorno delle Ceneri; per Pasqua dalla domenica delle Palme alla terza festa di Pasqua inclusa. Oltre le suddette vacanze ordinarie, il magistrato aveva facoltà di darne altre, quando ne riconosceva la necessità o la convenienza.
Nelle scuole pubbliche gli esami avevano luogo alla fine dell'anno scolastico alla presenza del deputato del vescovo e del magistrato comunale, il quale nominava gli esaminatori. Gli esami di riparazione dovevano farsi prima del 15 novembre.
A proposito degli esami, fra le risoluzioni dei quesiti fatti alla S. Congregazione degli studi intorno ad alcuni articoli della costituzione "
Quod Divina Sapentia", si trova quella che stabilisce che i maestri potevano essere presenti agli esami dei loro scolari, con la condizione però di non poter dare il loro voto. Altre risoluzioni stabilivano che il Consiglio comunale poteva deputare a suo arbitrio alcune persone a cui affidare la cura delle scuole pubbliche; che il Consiglio aveva il diritto di nominare i maestri provvisori e supplenti, salva sempre l'approvazione del vescovo; che questi non era tenuto a manifestare i motivi per i quali avesse negato la conferma ad un insegnante; che i congedi ai maestri potevano accordarsi dalla magistratura comunale quando non oltrepassassero le due settimane. mentre per un tempo più lungo era necessario il consenso del vescovo. Il 26 settembre 1825, in esecuzione dell'art. 300 della bolla fu pubblicato il regolamento per le scuole private. Anche queste disposizioni sono meritevoli di essere conosciute. Si intendeva aperta una scuola privata, quando nello stesso locale si fossero adunati più di tre alunni. Il permesso di aprirla si accordava in Roma dal Cardinale vicario e nelle città ed altri luoghi dello Stato Pontificio dai vescovi e dagli ordinati. Le licenze si davano in forma di lettere patenti, e dovevano rinnovarsi ogni anno. Per ottenere la licenza, occorreva presentare i seguenti documenti:
1- la cittadinanza nello stato,
2- di avere compiuta l'età di 21 anni e di essere "
di onesti natali";
3- di avere sempre dato "
saggio di religione e di buoni costumi";
4- di non essere affetto da alcuna malattia contagiosa o da evidente deformità che impedisse di riscuotere dagli scolari il dovuto rispetto.
[5 - di non essere mai stato inquisito e di non aver esercitato arte vile, ndr].
Oltre a ciò, il concorrente doveva dar prova della sua idoneità ad insegnare per mezzo di un esame da farsi innanzi a tre persone nominate dal cardinale vicario o dai vescovi secondo la rispettiva giurisdizione. Le scuole private dovevano essere affidate ai sacerdoti o ad altre persone non coniugate. Ogni maestro, prima di assumere l'esercizio della scuola, doveva recitare la professione di fede secondo la formula prescritta da Pio IV, da ripetersi ogni anno, al rinnovo della patente.
Le materie d'insegnamento comprendevano la dottrina cristiana, leggere e scrivere, elementi li lingua italiana, rudimenti della grammatica latina, aritmetica, principi di geografia e di storia sacra e profana. Nella patente "
ad annum", di cui sopra, doveva esprimersi se il maestro fosse abilitato ad insegnare tutto o una parte determinata del programma scolastico.
Nessun fanciullo poteva essere ammesso alle scuole, se non avesse compiuto 5 anni e non fosse sano di corpo. Venivano esclusi quei fanciulli che per "
viziose abitudini" o per qualche altra grave mancanza fossero stati espulsi da altra scuola, qualora non dessero prova di correggersi a giudizio del deputato. Nessun maestro poteva ricevere più di 60 scolari, e quando il numero oltrepassava i 30, era obbligato a tenere un sottomaestro. Il cardinale vicario a Roma e i vescovi in altri luoghi determinavano il massimo ed il minimo dello stipendio mensile che il maestro poteva esigere per ciascun scolaro, e decidevano in ogni controversia economica che insorgesse al riguardo. Era fatto obbligo ai maestri di tenere un registro di iscrizione e giornaliero; di iniziare le lezioni con qualche preghiera, di mettersi d'accordo con i parroci affinché i fanciulli, per quanto fosse possibile, avessero la possibilità di sentire la messa ogni mattina e di controllare che vi assistessero con ogni modestia e devozione e si confessassero almeno una volta in ciascun mese. Nel pomeriggio, sul finire della scuola, si dovevano recitare gli atti delle virtù teologali (fede, speranza e carità) e nei giorni di mercoledì e sabato le litanie della B. Vergine. Si davano prescrizioni sui doveri dei maestri, fra cui l'obbligo di avvisare il deputato, in casi di malattia, entro il termine di tre giorni, affinché si potesse provvedere alla sostituzione. Era obbligo del maestro insegnare la buona creanza, usando un apposito libro da leggersi in un giorno determinato. Fra le punizioni previste era compreso l'uso moderato della sferza, formata di semplici funicelle senza nodi, percotendo la palma delle mani. [Fantini, nel suo L'istruzione popolare a Bologna fino al 1860 - Zanichelli 1971, sostiene che nelle scuole del bolognese era in uso la sferza, i grani sotto le ginocchia, fare croci con la lingua sul pavimento, .. con l'aggiunta che svariati maestri erano finiti sotto processo per lesioni ai loro scolari. Celesia, nel suo Storia della pedagogia italiana - Carrara 1872/74, aggiunge:

Altro metodo d'insegnamento (comune allora, a ver dire, a tutte le scuole italiane) era la sferza... I nostri antichi usavano adoperare contro i più riottosi discepoli ora il flagellimi, or la scutica, ed ora la ferula, a seconda de' casi: gl'istruttori moderni, massime se chierici, aggiunsero a questi tre generi di battiture nuovi e più brutali argomenti, atti a meglio conquider l'animo de' giovinetti: come, a mo' d'esempio, costringerli a segnar con la lingua una lunga tratta di croci sul pavimento: il rilegarli sovra uno sgabello d'infamia che nomavasi banco d'inferno: il porre loro sul capo, in segno di vitupero, la così detta mitria dell'asino, e cotali altre lordure.   ndr].

L'orario giornaliero era di sei ore: tre al mattino e tre al pomeriggio.
Per le scuole delle fanciulle vi era un capitolo speciale. Le maestre dovevano insegnare la dottrina cristiana e i lavori femminili. Volendo insegnare anche a leggere e a scrivere, occorreva una speciale autorizzazione. Era permesso tenere nella stessa classe fanciulli e fanciulle promiscuamente, a patto che:
1 - i fanciulli si tenessero separati dalle fanciulle in una maniera che non potessero "praticare e addomesticarsi fra loro";
2 - i maschi, appena compiuti i cinque anni, dovessero assolutamente escludersi dalla scuola.
Per l'istruzione femminile il Governo pontificio stabilì speciali disposizioni. La S. Congregazione degli studi il 5 marzo 1828, pubblicò le "Regole per le scuole delle Maestre Pie da stabilirsi nello stato". Ecco quali erano tali regole.
Le maestre Pie e le loro scuole dovevano essere soggette al solo vescovo. Nell'introduzione si cominciava dal rilevare la grande necessità della buona educazione delle fanciulle, e si proseguiva nell'affermare che se abbondavano insegnanti capaci per i maschi, vi era però penuria di buone direttrici per le femmine. "Per questo motivo, prima in Montefìascone e poi in Roma, si sono introdotte le scuole delle Maestre Pie, affinché le fanciulle fossero con questo mezzo ammaestrate, non solo nei lavori manuali e nell'esercizio di leggere e scrivere, ma, ciò che ne principalmente importa, nei misteri della nostra santa fede, nel modo di frequentare con frutto i santissimi sacramenti della penitenza e dell'eucaristia, nell'obbedienza e rispetto verso i maggiori, nella purità e modestia tanto propria del loro sesso, ed in tutte quelle altre virtù, finalmente, che devono essere la vera norma del vivere cristiano". Le insegnanti dovevano essere scelte fra le zitelle e non dovevano vestire l'abito da maestre, se prima almeno per sei mesi non convivevano con le maestre medesime, per "sperimentare ed essere sperimentate". Nel tempo del noviziato dovevano abilitarsi nei lavori manuali e nel modo di fare la scuola. Per essere ammesse nel novero delle maestre, non era necessario portar dote; tuttavia non si vietava di farlo. Obbligatorio era il corredo di biancheria.
A quella che era assegnata loro per superiora, dovevano star soggette tutte le altre. In modo particolareggiato veniva descritta la foggia dell'abito, fissata la qualità e quantità del vitto, determinate le ore di riposo notturno e della ricreazione giornaliera a seconda delle stagioni. "In questo tempo - dicevano le regole - attenderanno a sollevarsi nel Signore con parlare di cose utili e profittevoli, guardandosi specialmente dall'introdurre discorsi che possano offendere la carità del prossimo".
Nelle feste e nei giorni di vacanza si permetteva loro l'uscire "dovranno però sempre andare nei luoghi di devozione, e dove non sia gran concorso di gente, procurando insieme, per quanto è loro possibile, ritirarsi in casa prima del finire del giorno".
Vi è un intero capitolo, con le regole dalla X alla XIII, su ciò che dovevano fare le maestre per il loro profitto spirituale. Ed anche qui tutto è determinato e precisato in ordine agli esercizi spirituali, alle orazioni vocali e mentali, alla comunione, all'esame giornaliero di coscienza, alla lettura di libri spirituali, alla recitazione del rosario, alle astinenze, alla messa (che si doveva sentire ogni mattina) ed alla "disciplina da farsi in tutti i venerdì in memoria della passione del nostro Signor Gesù Cristo e dei dolori detta sua santissima madre". Meritevoli di essere integralmente riportate sono le regole sull'esempio che dovevano dare le maestre:
"XXIV Non andranno mai fuori di casa senza una buona compagnia, quantunque vadano in chiesa; ed occorrendo loro di trattare con persone secolari, non diano in atti di troppa famigliarità e confidenza, ma stiano con gli occhi bassi e ben composti, acciocché ognuno resti edificato del loro procedere.
XXV. Nella scuola stiano sempre decentemente vestite, e non discorrano di cose del secolo ma sempre di Dio e di cose appartenenti alla scuola.
XXVI. Non ammettano uomini in casa, ed occorrendo loro di trattare con essi, non vi restino mai sole, e procurino che per le 24 ore siano licenziati, proibendosi espressamente l'ammettere uomini dopo l'avemaria.
XXVII. Il confessore non si chiami né a casa né alla scuola se non per cagione d'infermità, ed occorrendo che egli debba udire la confessione di qualche maestra inferma, la porta stia sempre aperta, di modo che possano essere osservati. Parimenti il medico non si lascerà mai solo con l'inferma, ma vi resterà sempre un'altra compagna.
XXVIII. Se qualche confessore o altro ecclesiastico venisse non chiamato e senza occasione d'infermità alla scuola, gli faccia civilmente intendere, che ciò non conviene, ed ove ciò non basti, se ne avvisino i superiori.
XXIX. Dovendo le maestre visitare qualche scolara, lo facciano in modo che restino edificati tutti quelli che vi si trovano presenti, ed essendo invitate a bere o a mangiare, lo ricusino modestamente. Occorrendo poi d'avere a mangiare o bere fuori di tavola non
10 facciano senza espressa licenza della superiora quando non vi fosse urgente bisogno.
XXX. Non solo netta scuola e fuori di casa devono le maestre, per esempio delle altre, andar coperte e star composte e modeste, ma altresì useranno questa modestia sì netto spogliarsi che nel vestirsi, come anche nel trattare fra di loro. A tale effetto eviteranno il  dormire nello stesso letto".
Seguivano le istruzioni sullo spirito di carità che doveva regnare fra le maestre d'una scuola e quelle delle altre; sugli obblighi della superiora, circa il bisogno di ogni maestra, e sui doveri di obbedienza delle insegnanti.
Quelle fanciulle che non avevano buon nome, e che facevano "all'amore" che non dubitavano o disturbavano, dovevano essere licenziate, se non promettevano e dimostravano segni di pentimento.
I castighi per gli alunni dovevano consistere in qualche penitenza o pochi colpi di disciplina, mai però le maestre potevano battere o con collera dar loro degli schiaffi.
Ogni sabato si leggevano alla mensa tutte queste regole, sebbene ogni maestra dovesse tenerle presso di sé e "rendersele famigliari con leggerle spesso per osservarle con più esattezza".
Si conserva memoria di Scuole Pie a Fermo (scuola istituita nel 1839 dall'arcivescovo Borgia), a Offida (istituita da Maria Syeber nel 1821), a S. Vittoria (risalente al 1781) e a Montottone (scuola Lucarelli).
Per quanto riguarda l'educazione infantile, cioè di bambini di età inferiore a sei anni, nello Stato pontificio, nel 1846 esistevano solo due istituti per l'infanzia. In un articolo pubblicato nel "Museo letterario di Torino" si dice che appena fu eletto papa Pio IX 
[originario di Senigallia, nelle Marche,   n.d.r.] Ascoli si affrettò a chiedergli un Asilo: esso fu concesso e prese il nome di "Scaldatoio per ipoveri bambini". Altre notizie in merito non si hanno, sappiamo solo che intorno al 1860, il Regio Commissario generale per le Marche, Lorenzo Valerio, insediandosi nella città di Ancona, si rivolse alle signore di quella città, esortandole a promuovere la fondazione di Asili infantili, intesi, quindi essenzialmente come un'opera benefica nei confronti dei più disagiati.

Una notazione d'interesse è relativa a cosa si richiedeva alle maestre che ambivano ad insegnare nelle scuole femminili: dottrina cristiana ed osservanza delle pratiche religiose.

Per capire ora quanti erano interessati a questa restaurazione nello Stato Pontificio è utile il testo di Pivato che studia la situazione in Romagna e così scrive [4]:

A testimoniare  i bassi tassi di scolarizzazione dello Stato pontificio alla vigilia dell'annessione al Regno d'Italia rimangono i dati esibiti dalla Formiggini Santamaria secondo i quali nei sei circondari delle due province romagnole la popolazione scolastica costituiva appena il 2,69 % sul totale della popolazione (tab. 1).
Provvedimento portante della legislazione scolastica dello Stato pontificio era stato il regolamento sull'ordinamento delle scuole emanato il 25 settembre 1825 dalla Sacra congregazione degli studi istituita l'anno precedente da Leone XII con la bolla
Quod Divina Sapientia. Suddiviso in sei titoli, quel regolamento contemplava nei primi quattro le disposizioni concernenti le scuole maschili, nel quinto prendeva in esame le norme relative all'istruzione femminile e nell'ultimo venivano stabilite le modalità di esecuzione.
Particolare attenzione era rivolta al problema del reclutamento dei maestri e degli obblighi cui questi erano sottoposti nell'esercizio delle loro funzioni. La loro nomina, subordinata all'approvazione del vescovo, cui spettava anche la facoltà di concedere le licenze all'insegnamento previo accertamento della professione di fede, era vincolata ad una serie di obblighi e di doveri la cui osservanza era demandata alla sorveglianza dei deputati². Il titolo terzo si soffermava sulla ammissione dei fanciulli alle scuole stabilendo il minimo di età ai cinque anni e prescrivendo che in caso di "viziose abitudini" il fanciullo potesse essere ammesso a frequentare solo se avesse dato prova di "emendamento".
Circa l'insegnamento delle materie, il regolamento distingueva fra quelle da impartire nelle scuole maschili, descritte nel secondo titolo, e quelle delle scuole femminili contemplate nel quinto titolo. Per i maschi le materie prescritte erano dottrina cristiana, lettura, elementi di lingua italiana, rudimenti di grammatica latina, aritmetica, calligrafia, principi di geografia e di storia sacra e profana. Le materie dell'insegnamento femminile si restringevano a due: dottrina cristiana e lavori. Una speciale approvazione era poi richiesta per quelle maestre che intendevano istruire le fanciulle anche nella lettura e nella scrittura.
L'insieme di queste norme avrebbe costituito la base legislativa di tutto il sistema scolastico dello Stato pontificio fino alla sua caduta. Scarse e di poco rilievo infatti le innovazioni introdotte dai successori di Leone XII i cui innesti legislativi sul Regolamento del 1825 avrebbero mirato a renderlo ancor più fiscale, soprattutto per ciò che riguardava il reclutamento degli insegnanti. Pio VIII avrebbe infatti prescritto, nel 1829, alcune restrizioni volte a diminuire il numero dei maestri laici ritenuto eccessivo rispetto a quello degli ecclesiastici, e dettato criteri più rigorosi circa l'adozione dei libri di testo. Ad un criterio ancor più restrittivo dei precedenti si sarebbe poi ispirato il decreto della Sacra congregazione degli studi del 2 settembre 1833 che, dettato dalla preoccupazione di vigilare sulla "morigerata condotta" dei maestri, subordinava l'approvazione all'insegnamento al parere della Sacra Congregazione.
Neppure sotto il governo di Pio IX la legislazione scolastica subiva modifiche di rilievo. Se non pochi documenti della Sacra congregazione agli studi ci rivelano che il problema dell'istruzione cominciava ad essere avvertito con una maggiore sensibilità che in precedenza, è vero però che, alle indagini conoscitive sullo stato dell’istruzione elementare promosse da Pio IX, non fecero seguito provvedimenti concreti per una sua più ampia diffusione.

Tab. 1 - L'istruzione elementare in Romagna nel 1858

Circondari

Abitanti

Scuole maschili

Scuole femminili

Gratuite

Private

Allievi

Gratuite

Private

Allievi

Cesena

66.800

18

-

715

15

9

590

Forlì

59.305

9

-

720

3

-

714

Rimini

81.500

30

20

1.135

9

45

1.188

Faenza

64.318

25

9

731

5

54

1.059

Lugo

53.158

18

43

988

4

21

603

Ravenna

30.404

6

15

640

1

11

481

 

Totale

 

355.485

106

87

4.929

37

140

4.635

Fonte: E. Formaggini Santamaria, L'istruzione popolare nello Stato pontificio  1824-1870, cit., p. 253.

 

Tab. 2 - L'analfabetismo in Emilia-Romagna dal 1861 al 1881

Provincie

1861

1871

1881

Bologna

77,8

71,6

56,1

Ferrara

81,7

77,1

66,9

Modena

78,0

72,6

61,1

Parma

82,5

78,0

66,3

Piacenza

83,0

77,8

63,5

Reggio Emilia

81,9

75,4

62,6

Ravenna

84,1

80,4

67,7

Forlì

86,8

81,4

72,2

Emilia Romagna

81,2

76,5

64,0

Italia

78,8

73,7

61,9

Fonte: L. Bergonzini, L'analfabetismo nell'Emilia-Romagna, cit., p. 15.

Animata non già dal proposito di estendere l'istruzione ma, piuttosto, da una volontà restauratrice la legislazione scolastica pontificia era dunque improntata a quella "chiusura misoneista di fronte alla prospettiva di un sia pur minimo innalzamento di istruzione delle classi subalterne" che alcuni storici hanno indicato come una delle caratteristiche di fondo della scuola preunitaria.

Tuttavia, le carenze dello Stato pontificio in materia scolastica spiegano solo in parte lo stato di arretratezza dell'analfabetismo in Romagna. L'applicazione della legislazione scolastica del nuovo stato unitario avrebbe scontato ritardi ed incongruenze che non poco avrebbero pesato sullo sviluppo successivo dell'istruzione primaria. La volontà del governo provvisorio di procedere con estrema cautela nella estensione della legislazione del nuovo stato unitario avrebbe infatti comportato il mancato adeguamento della legislazione scolastica delle provincie della Emilia e della Romagna a quella unitaria.

I provvedimenti in materia di istruzione sanciti dal governo provvisorio sembrano infatti soffrire di quella stessa diffidenza avvertibile su un piano legislativo più generale .
Il timore di cambiamenti troppo repentini e le ampie riserve dei moderati romagnoli condussero, infatti, non già alla subitanea promulgazione della Casati  [vedi oltre, ndr] ma alla emanazione di una serie di frammentarie disposizioni. È pur vero che il provvedimento più consistente del governo provvisorio, ossia il decreto Albicini del 25 ottobre 1859, ricalcava a grandi linee i provvedimenti casatiani, tuttavia di quelli non mutuava gli aspetti più innovativi.

Dalla legge Casati il decreto Albicini sembrava aver ereditato la scarsa attenzione dedicata ai problemi della scuola primaria poiché si soffermava in particolare sulla istruzione secondaria e su quella universitaria. Inoltre il decreto Albicini eludeva la proclamazione del principio dell'obbligo, contenuto, invece, sia pure con non poche incongruenze, nella Casati.

Tab. 4 - Grado di analfabetismo nelle città capoluogo do provincia dell'Emilia-Romagna nel 1881

Capoluoghi

%

Capoluoghi

%

Bologna

33,0

Reggio Emilia

50,6

Piacenza

33,8

Ferrara

60,3

Parma

35,8

Ravenna

66,9

Modena

40,8

Forlì

67,4

Fonte: L. Bergonzini, L'analfabetismo nell'Emilia-Romagna, cit. p. 13.

    Tuttavia, il pur considerevole sviluppo delle strutture scolastiche nei primi anni postunitari non arrivava che in misura assai limitata a soddisfare il processo di scolarizzazione. In effetti secondo i calcoli prodotti dal prefetto Campi risultava che, nell'anno scolastico 1863-64, ancora i tre quinti dei fanciulli fra i cinque e i dodici anni della provincia forlivese non frequentava le scuole. Se il processo di scolarizzazione fosse proceduto con la stessa intensità del primo quinquennio unitario - queste le conclusioni cui giungeva Campi - sarebbero occorsi ancora quindici anni affinché tutta la popolazione infantile avesse potuto essere pienamente scolarizzata. La stima, per quanto sconfortante, si sarebbe però ben presto rivelata come improntata ad un eccessivo ottimismo. Negli anni successivi infatti il processo di scolarizzazione non solo non sarebbe proceduto con la stessa intensità dei primi anni postunitari, ma almeno per certe zone, avrebbe mostrato segnali di preoccupante regresso. (...) Più analiticamente gli annuari della pubblica istruzione mostravano che se fino al 1864 il numero delle scuole e degli insegnanti era andato progressivamente aumentando, a partire dall'anno 1865-66 esso era diminuito in maniera preoccupante. Poco confortanti anche i dati relativi alla popolazione scolastica che indicavano una diminuzione del numero degli alunni (...).
   

I motivi di uno sviluppo ritardato

    Una delle cause che più pesantemente influivano sui ritardi del processo di scolarizzazione va individuata nelle spesso dolenti condizioni delle finanze comunali sulle quali gravava infatti l'onere maggiore dell'istruzione primaria, secondo quanto prescritto dalla legge Casati. Il disagio economico di gran parte dei comuni avrebbe per anni condizionato negativamente gli sviluppi della scolarizzazione.

    Alla luce di questi dati se apparivano giustificate le sollecitazioni che i prefetti rivolgevano costantemente alle amministrazioni comunali quelle critiche tendenti ad individuare esclusivamente nella "inerzia delle municipali rappresentanze [...] consigliate o da ristrettezze di vedute, o da ciechi pregiudizi […] e finalmente da una mal intesa economia" le cause che compromettevano "miseramente l'avvenire delle popolazioni nella parte più nobile che è quella dell'istruzione e della moralità" erano perlomeno viziate da una eccessiva mentalità inquisitoriale.

    La lentezza e l'incertezza degli sviluppi dell'istruzione in quei primi anni unitari emerge con maggiore chiarezza quando si vanno ad esaminare separatamente alcuni fenomeni. Primo fra tutti quello dell'istruzione femminile. Il ritardo della scolarizzazione femminile appare con femminile e quella maschile se si vanno ad esaminare le spese per le istruzione nei bilanci comunali dei municipi romagnoli. (...)
    Il lento procedere del processo di modernizzazione della scuola primaria in Romagna era testimoniata anche dalla occasionalità del reclutamento della classe insegnante. L’improvviso sviluppo della scolarità all’indomani della caduta dello Stato pontificio aveva trovato in gran parte impreparate le amministrazioni comunali nel provvedere al reclutamento dei maestri. La legge Casati aveva tuttavia previsto tale ostacolo e indicato come, sia pure entro certi limiti le funzioni docenti potessero essere esercitate in via provvisoria da personale non patentato purché ne fosse stata accertata una sufficiente preparazione.

C'è a questo punto da sottolineare che nel 1849 vi fu la breve (cinque mesi) ma intensa esperienza della Repubblica Romana che vide il Papa in fuga esule nel Regno di Napoli. Si progettarono interventi educativi di ampio respiro e la scuola ebbe un posto di privilegio. I documenti che parlano di tali progetti sono:

- il discorso di Mazzini all'Assemblea Costituente del 10 marzo;

- la circolare del 20 marzo del Ministro della Pubblica Istruzione Sterbinetti ai Presidi delle scuole;

- il manifesto alla popolazione del triumvirato del 5 aprile.

Sostanzialmente si parla di libertà di insegnamento, svincolando quest'ultimo dal sistema cattolico-feudale ma non affidandolo alle famiglie perché occorre puntare all'unità morale della Nazione e tale obiettivo non si raggiunge con le famiglie. Occorre anche evitare un eccessivo statalismo e decentrare molto ai comuni. Si disquisisce astrattamente di istruzione ed educazione: lo Stato dovrebbe puntare all'educazione quasi che l'istruzione non avesse un grande valore formativo. Si lascia massima libertà di istruzione e di diffusione delle scienze. In definitiva l'educazione nazionale deve prevedere [18]: un corso di nazionalità, comprendente un quadro sommario dei progressi dell'Umanità, la Storia Patria e l'espressione popolare dei principi che reggono la legislazione del Paese. L'istruzione elementare è tutta affidata allo Stato.

I limiti di tale progetto stanno tutti in una "educazione" non garantita allo stesso modo a tutti, con una discriminazione nei fatti per i ceti meno abbienti. E' il riflesso dell'aristocratismo di classi privilegiate e colte che tendono sempre ad essere solidali ma da una posizione paternalista di superiorità.

Tornando allo Stato Pontificio, un cenno ai libri di testo è indispensabile prima di passare alla scuola restaurata nel Regno di Napoli. Intanto essi erano rigidamente controllati dall'autorità ecclesiastica quindi [3]

l'istruzione dei bambini iniziava con "La Santa Croce". Sulla prima pagina c'era una crocetta, seguita dall'alfabeto maiuscolo e minuscolo e dai numeri arabi e romani. Venivano poi le sillabe e la composizione di alcune parole nuove; infine il Credo, i Comandamenti e il modo di servire la Messa.
C'era poi l'
Abbecedario, che era seguito da poche pagine di lettura: massime morali, proverbi, raccontini, favole in versi e in prosa, e, in ultimo, le principali regole di interpunzione. Dal 1857 si aggiunsero nozioni di cronologia, di storia e di geografia, insegnate a domande e risposte.
Dall'Abbecedario si passava alla
Storia dei SS. Barlaam e Josafatte, una leggenda medievale il cui fine è l'esaltazione della fede cristiana; si faceva leggere anche il Fiore di virtù, di contenuto morale, in forma di ragionamenti, di massime della Bibbia, di sentenze di antichi scrittori. Per l'aritmetica si usava l'Abaco, infine, La dottrina cristiana e il Trattato elementare sui doveri degli uomini.
Nelle scuole femminili erano adottati
L'ufficio della Madonna e il Leggendario di alcune sante vergini, che raccontava la vita di sante vissute al tempo delle persecuzioni e che glorificava il celibato e la castità.
Nel regno pontificio non c'era la libertà di stampare libri: essi venivano prodotti e venduti dall'Ospizio apostolico di S. Michele, che ne faceva un elenco a cui gli insegnanti dovevano attenersi. I contravventori venivano puniti con la confisca dei libri non approvati e con una multa corrispondente al valore di essi; l'importo delle multe era devoluto per metà all'Ospizio di S. Michele e per l'altra metà all'accusatore o scopritore della merce proibita.

A queste cose si possono aggiungere le osservazioni di Genovesi [2]:

Circa il metodo, era adottato uniformemente «quello tradizionale (normale), trasmesso di generazione in generazione d'insegnanti e scrupolosamente codificato in minuziosi regolamenti. [...] Tutto era meticolosamente distribuito di mezz'ora in mezz'ora e ridotto ad un meccanismo nel quale ogni cosa era cronometrata» (...). Questi non erano limiti esclusivi dello Stato pontificio, ma comuni a tutte le scuole della penisola. Semmai lo Stato del papa, più degli altri, era caratterizzato da una calcolata sciatteria nei confronti di una vera istruzione popolare di cui fu per più lungo tempo un accanito avversario. In effetti, anche se la riorganizzazione di papa Leone XII «favorì non poco l'istruzione dei figli del popolo, poiché al miglioramento didattico andò congiunta l'apertura di numerose scuole elementari» (...), lo spirito che domina tale riorganizzazione è quello di carità che mai si incontra con il concetto di diritto. Inoltre il beneficio maggiore si risentì nella capitale, dove furono potenziati orfanotrofi e ricoveri per zitelle e «pericolande» con annessa qualche forma di insegnamento elementare,  scuole per sordomuti e per ciechi, collegi e scuole di parrocchia e rionali sì da accogliere una parte più consistente dei figli del popolo anche se non la totalità come riporta il saggio citato. Nel 1869 le scuole pubbliche, comprese le scuole pie, erano soltanto 20 e non accoglievano che 1.655 alunni e nel 1870 l'intera popolazione scolastica romana, nelle scuole e collegi pubblici o diretti da religiosi, era di 7.941 unità. Di questi alunni, 5.555 ricevevano un'istruzione gratuita (...), all'insegna della carità, ma non del diritto. A partire dalla seconda metà degli anni '40, superata la netta opposizione dei vescovi, sia a Roma (1848) sia a Bologna, Macerata (1847), Imola (1848), Ravenna (1851), furono fondati asili infantili, scuole della Provvidenza (...) per le fanciulle, effimere scuole elementari a pagamento e fu esteso il «sistema» delle scuole notturne, che già da vari anni riscuotevano una certa fortuna.

Le scuole notturne sorsero nel 1919 per iniziativa privata e tali restarono fino al 1870. Erano gratuite, si occupavano di istruzione professionale, fornivano gli studenti degli strumenti necessari con lezioni della durata di un'ora e tre quarti perfettamente scandite tra le materie (che prevedevano sempre una grande parte alla religione). Visto il loro successo spinsero alla creazione di una scuola per la preparazione degli insegnanti. la scuola aprì nel 1845 e fu chiusa da Pio IX nel 1851. Ebbero il favore della Curia, contrariamente agli asili dove, la Chiesa vedeva maggiori possibilità per i liberali d'infiltrarsi. Poiché erano gestite da privati, era vietato castigare le persone che, se commettevano azioni particolarmente gravi, venivano espulse.

Tali scuole non entrarono mai a far parte di un sistema pubblico. Il Vaticano restò sempre privo di un sistema educativo primario. Più che uno Stato di diritto era uno Stato di carità.Alcune testimonianze possono rendere meglio conto dei bassissimi livelli di indottrinamento delle scuole pontificie. Il mazziniano Giovanni Ruffini, perseguitato dalla Chiesa e perciò esule in Inghilterra, racconta dei certificati che gli venivano richiesti per iscriversi all'Università di Genova [11]:  

1. Certificato di nascita e di battesimo; ... 4. Certificato di buona condotta, rilasciato dal prete della parrocchia; 5. Certificato di assiduità agli uffizi della parrocchia tutti i giorni festivi nel corso degli ultimi sei mesi; 6. Certificato di confessione mensile durante i sei mesi precedenti; 7. Certificato di confessione e comunione pasquali, secondo il Comandamento della Chiesa, all'ultima solennità di Pasqua; 8. Certificato provante che i genitori possedevano fondi di valore sufficiente per assicurare ad ognuno dei figli una rendita uguale alla somma fissata dal regolamento; 9. Certificato di polizia, che dichiarasse non aver io preso parte ad alcun movimento costituzionale del 1821.

Di seguito vi è invece la sintesi delle prescrizioni del cardinal-vescovo di Imola, città dello Stato pontificio, nel Regolamento disciplinare intorno alle scuole comunali, del 1854 [11]: 

Prima o dopo della scuola gli scolari ascoltino la S. Messa... Dopo la scuola della sera i Maestri condurranno i loro alunni alla visita del SS.mo Sacramento; dopo la quale si canteranno le Litanie della Vergine santissima. Nei giorni festivi ascolteranno la S. Messa, reciteranno il Mattutino e le Laudi dell'Uffizio piccolo della Madonna, sentiranno la spiegazione del Vangelo. Nei giorni festivi tutti i Maestri accompagneranno i loro scolari nel dopo pranzo alla Chiesa parrocchiale per la spiegazione della Dottrina cristiana.



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