Da Luigi Berlinguer a Letizia Moratti
intellettuali e scuola
quarta parte
 



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Si consiglia anche la lettura dello studio di Roberto Renzetti sul lavoro dei think tank e delle imprese, non solo italiane, che hanno portato alla costruzione delle riforme di Luigi Berlinguer prima e di Letizia Moratti poi.



di Costanzo Preve



Per agevolare la lettura, il testo è stato diviso in otto parti.

All'introduzione

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  • A questo punto ritengo necessario introdurre un breve inciso. Si usa in modo un po’ sconsiderato parlare di questo tipo di cultura populistico-pedagogica in termini di Marx e di marxismo, o meglio di sciagurata egemonia del marxismo. Personalmente, ho dedicato a Marx ed al marxismo almeno due decenni di studi, e mi considero un conoscitore serio sia della teoria di Marx che della variegata e complessa storia del marxismo.
    Ebbene, questo populismo pedagogico, per metà laico ed anticlericale e per metà cattocomunista, non c’entrano assolutamente nulla con Marx, erede diretto dell’illuminismo e del romanticismo, e dunque del grande liceo tedesco dell’Ottocento. La matrice deve essere piuttosto fatta risalire alla corrente detta dell’operaismo italiano, ed in particolare ai suoi due elementi costitutivi fondamentali, e cioè il sociologismo e l’economicismo.
    Ciò che i non specialisti (e cioè il 98% dei commentatori giornalistici della storia) credono sia il pensiero di Marx è in realtà un impasto altamente sgradevole ma anche altamente volatile (e cioè a bassa conservazione) di sociologismo e di economicismo. Questo è particolarmente chiaro nella questione scolastica. Per sociologismo intendo l’idea del riassorbimento della cosiddetta separatezza della scuola nel corpo diretto della società, intesa per di più come l’estensione spaziale di una grande fabbrica. Per economicismo intendo l’ossessiva riduzione dell’istituzione scolastica a fornitrice del mercato del lavoro capitalistico e di controllo del cosiddetto esercito industriale di riserva. Questo impasto di sociologismo e di economicismo, cui si associa irresponsabilmente il nome onorato di Marx, è particolarmente evidente nel cruciale documento cui farò ora riferimento.

  • La rivista mensile Il Manifesto (non ancora quotidiano) pubblica nel suo numero 2, febbraio 1970, delle Tesi sulla Scuola firmate a sei mani da Rossana Rossanda, Marcello Cini e Luigi Berlinguer, che sono uno sconcertante concentrato profetico del futuro quinquennio Berlinguer-De Mauro del 1996-2001. Vale la pena farvi alcune considerazioni “dialettiche”, che spieghino cioè come le stesse impostazioni, mutato il tempo storico in cui vennero espresse, possono rovesciarsi nel loro esatto contrario.
    Le Tesi sulla Scuola del 1970 sono un manifesto dell’utopia della descolarizzazione, cioè dell’integrale fusione del momento educativo e formativo con il momento sociale e politico.
    Come tutte le utopie della fusione, si tratta di un fraintendimento radicale e fatale del fondamento filosofico ed antropologico del comunismo moderno di Marx, che è un comunismo delle libere individualità autonome e non della fusione populistica o sociale. Ma qui, se è possibile, vi è un fraintendimento ancora più grave. Qui non si capisce neppure la ragione per cui i fondatori della scuola moderna, dal 1780 al 1830, ebbero ben chiaro il concetto per cui la scuola non doveva “rappresentare” o “rispecchiare” la società così com’era (non importa se in variante statica o movimentistica, di destra o di sinistra, eccetera), ma doveva costituire un momento relativamente separato.
    Questa separatezza, lungi dal rappresentare un ritardo conservatore da colmare, rappresentava una garanzia inestimabile di autonomia dalle pressioni dirette ed immediate dell’economia e della politica. Per usare il linguaggio delle scienze sociali moderne, i governi cambiano, le mode culturali cambiano ogni decennio, le cosiddette esigenze del mercato del lavoro mutano con i conseguenti profili professionali richiesti, le pressioni giornalistiche mutano, eccetera, mentre la scuola come istituzione non può e non deve correre dietro a tutti questi inevitabili mutamenti sociali, ma deve dotarsi di una sua temporalità autonoma in cui strutturare il momento educativo.
    Confluivano in questa razionale concezione di separatezza (ovviamente relativa) il razionalismo illuministico e l’idealismo romantico. La scuola è infatti il luogo della paideia, dell’educazione dei sentimenti e della ragione, ed il distacco prospettico dalla società così com’è è la precondizione ottica per non farsi assorbire e succhiare dentro una contemporaneità che poi è anch’essa fasulla, perché è un tempo che scorre e scompare istantaneamente. Tutto questo, ovviamente, non impedisce un riformismo scolastico anche radicale nei cambiamenti delle materie, dei metodi di insegnamento e negli assi culturali. Impedisce soltanto una impossibile antropologia della fusione dell’individuo con la società, fusione che viene invocata sempre in nome della comunità (di volta in volta religiosa, nazionalistica o proletaria, eccetera), laddove rende proprio impossibile ogni costituzione vera di comunità, perché una comunità reale è composta da individualità libere ed autonome.

  • Abbiamo così individuato il difetto che a mio avviso sta nel manico, ed il manico era tenuto saldamente in mano da quell’ispirazione culturale sessantottina che era del tutto egemone presso quella categoria di intellettuali-massa prevalente nell’insegnamento elementare, medio e secondario. Le dinamiche della costituzione dell’intellettualità universitaria sono diverse, in quanto hanno a che fare con la costituzione della parte inferiore dei ceti dominanti, e non con la parte superiore dei ceti dominati. Questo dà luogo ad una tipica situazione di scissione simbolica fra Noi e Loro che non deve essere ridotta a semplici questioni di stipendio (in questo contesto del tutto secondarie, anche se pur sempre significative, perché non si vive di aria e nei negozi bisogna pagare), perché hanno a che fare non solo con il cosiddetto prestigio dello status sociale, ma con l’accesso ai media e con il diritto ad essere ascoltati. E’ chiaro a tutti, ad esempio, che il diritto di un magistrato ad essere ascoltato dall’opinione pubblica è mille volte superiore al diritto di un insegnante a veder compreso il proprio punto di vista. La macchina spocchiosa del giornalismo, ad esempio, equipara il lamento dell’insegnante alla mormorazione plebea dell’operaio, identificato con un inesistente Cipputi. Tutto questo, purtroppo, non è innocente, perché rinsalda nell’insegnante quelle caratteristiche negative del risentimento, del rancore, dell’invidia che sono tipiche di ogni plebeismo regressivo ed impotente.



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