Dalla Rivoluzione alla Disobbedienza

Note critiche sul nuovo anarchismo post-moderno della classe media globale

II parte
 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve, apparso per la prima volta sulla rivista Praxis è stato diviso in dodici parti.

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4. Organizzerò il mio discorso secondo la seguente successione di argomenti, con alcuni richiami bibliografici quando lo riterrò utile e necessario per stimolare l'autonoma ricerca del lettore.

In primo luogo, bisogna subito cogliere il punto essenziale, e cioè il passaggio dalla Rivoluzione alla Disobbedienza. La Disobbedienza non è affatto una variante depotenziata di Rivoluzione, ma è il suo contrario. Il terreno della Rivoluzione è quello di una organizzazione alternativa della produzione sociale, e si porta dietro ovviamente anche proposte radicalmente alternative di tipo politico e culturale. Il terreno della Disobbedienza è un povero e subalterno terreno mediatico, già perfettamente descritto in modo profetico negli anni Sessanta dai Situazionisti, ed è un terreno su cui si consuma una sorta di gestualità virtuale ininterrotta, del tutto funzionale (anche se stavolta fastidiosa per i commercianti) all'integrazione nel sistema di "ghetti" autogestiti di stravolti che ascoltano musica a pieno volume.

Se non si coglie la natura storica e teorica del passaggio dalla Rivoluzione alla Disobbedienza è assolutamente inutile andare avanti. Ma se la si è colta, si può passare al secondo punto.

In secondo luogo, è bene ritornare sulla differenza fra il vecchio ed il nuovo anarchismo. Vietato confonderli. E vietato ripetere pappagallescamente i vecchi insulti infami contro l'anarchismo fatti secondo un'ottica che prima sputa sull'anarchismo e poi giustifica e loda lo stalinismo. Mai dimenticare che il vecchio anarchismo fu un movimento di spiriti liberi, di produttori e di lavoratori.

In terzo luogo, e qui viene il difficile, bisogna brevemente ricostruire i due fondamentali elementi, almeno in Europa, di questo nuovo anarchismo post-moderno della disobbedienza e del consumo parassitario. Veramente sarebbero più di due, e scrivendo due si semplifica. Ma senza semplificare un po' è difficile fare cogliere l'essenziale. In breve, ci sono due elementi, un elemento sociale e politico, ed un elemento psicologico ed antropologico, fusi insieme. L'elemento sociale e politico viene dal cosiddetto operaismo italiano, e sarò allora costretto a ricostruirne almeno la dinamica di fondo. La figura di Toni Negri è in proposito importante, anche se provo un certo fastidio nel doverci tornare sempre sopra. L'elemento psicologico ed antropologico, invece, viene dalla cosiddetta scuola francese del desiderio e della differenza, scuola che in realtà comprende molti esponenti, che qui per brevità verranno ridotti a due, Gilles Deleuze e Michel Foucault.

Il punto essenziale sta nel comprendere la fusione fra le due convergenti tradizioni, l'operaismo italiano e la scuola francese del desiderio e della differenza. Storicamente, questa fusione comincia ad effettuarsi a metà degli anni Settanta del Novecento. È già passato più di un quarto di secolo, ma questo non deve stupire. Ci vuole almeno un quarto di secolo nella storia perché una corrente possa costituirsi, consolidarsi, dotarsi di un linguaggio di riconoscimento, e per usare un termine di Antonio Gramsci aspirare alla "egemonia".

E infatti stiamo arrivando, dopo un quarto di secolo, ad una sua possibile e probabile egemonia. Vi sono certo elementi strutturali, la formazione di una nuova classe media globale legata alla comunicazione che è il destinatario sociale privilegiato di questa nuova variante post-moderna dell'anarchismo del consumo opulento. Ma questa vittoria non sarebbe stata tanto facile senza la tradizionale stupidità settaria dei marxisti di ogni colore, impegnati ad odiarsi fra di loro ed a sostituire il dibattito con velenose battute da ubriaconi.

In quarto luogo, infine, terminerò questo breve testo con un "che fare" sommario. Il vantaggio preso dalla scuola Negri-Foucault è già tale che a mio avviso sarà una storia lunga. Facciamo almeno il primo passo.

5. Il filosofo tedesco Koselleck è forse colui che ha saputo meglio disegnare la genesi del concetto moderno di Rivoluzione. Nel pensiero politico degli antichi greci questo concetto semplicemente non esisteva, ed il suo pallido corrispondente, stasis, significa solo rivolta, ribellione, tumulto, non certo rivoluzione. In greco moderno, la lingua che deriva direttamente dal greco antico, il termine "rivoluzione" (epanastasis) ha dovuto essere creato su di un modello posteriore, latino ed europeo. Come è noto, il termine ha dovuto passare dall'ambito astronomico (revolutio, rivoluzione degli astri) ad un ambito politico.

Tutto questo non è casuale. Il termine di rivoluzione nasce in un ambito direttamente utopico. Si tratta del ristabilimento, per definizione utopico, di una situazione originaria ottimale nel frattempo perduta. Come in tutte le utopie precapitalistiche, si ha un concetto naturalistico dei bisogni da soddisfare in modo possibilmente giusto ed egualitario, e non si ha assolutamente in mente il quadro economico della produzione capitalistica, in cui i bisogni vengono artificialmente sollecitati con la pubblicità e con la diversificazione dell'offerta. In proposito, per quanto concerne il "comunismo" di Marx è possibile pensare sia che esso sia appunto "scientifico" (il socialismo scientifico di Engels, il comunismo critico di Labriola), sia che invece esso sia di fatto "utopistico". Questa è per esempio la mia personale opinione. Per essere più esatti, ritengo che la teoria di Marx del modo di produzione capitalistico e delle sue dinamiche strutturali sia scientifica (ed ovviamente modificabile come avviene in tutte le teorie scientifiche), mentre la sua concezione del comunismo sia di fatto intrisa di utopismo. Ma per me "utopismo" non è una parolaccia, o una parola dispregiativa. Essa connota soltanto un ideale naturalistico dei veri bisogni dell'uomo.

Ho aperto questa parentesi perché voglio far subito notare che la teoria dei desideri di Deleuze e Negri non è una teoria dei bisogni (cfr. M. Bianchi, I bisogni e la teoria economica, Loescher, Torino 1980). Il motivo per cui generalmente i marxisti dicono che è impossibile realizzare una rivoluzione comunista dentro il modo di produzione capitalistico sta appunto nel fatto che essi ritengono che il capitalismo sviluppa falsi bisogni. Se invece partiamo dal "desiderio", come lo interpretano Deleuze e Negri, effettivamente non c'è più nessun bisogno di una rivoluzione, perché il soddisfacimento dei flussi desideranti delle moltitudini può tranquillamente essere esaudito dentro il quadro della produzione capitalistica stessa. Si ha così una tipica rivoluzione senza rivoluzione, ed è esattamente per questo che Negri piace ai due poli opposti delle oligarchie capitalistiche al potere e dei centri sociali autoghettizzati di consumo detto "alternativo".

Ma torniamo all'idea di Rivoluzione. A suo tempo Karl Löwith aveva interpretato il marxismo e la rivoluzione comunista come una semplice secolarizzazione dell'escatologia giudaico-cristiana nel linguaggio moderno dell'economia politica inglese e della filosofia hegeliana della storia. Ma questo significa ridurre la rivoluzione comunista ad una semplice riproposizione atea del messianesimo. Koselleck è in proposito più acuto, perché sa bene che la rivoluzione, nonostante la sua componente utopica, ha bisogno di una nozione di Storia come "concetto trascendentale riflessivo". E questo concetto trascendentale riflessivo, per cui l'umanità intera è pensata come un unico soggetto che prende coscienza di sé nel tempo, nasce solo a metà Settecento.

6. I marxisti sanno bene che il concetto di Rivoluzione nasce a metà Settecento per ragioni ben precise. E la ragione è appunto che lo sviluppo della produzione borghese-capitalistica di merci non è alla lunga compatibile con le strutture politiche e religiose feudali e signorili. La rivoluzione borghese è infatti una rivoluzione "seria", una vera rivoluzione. Non si è trattato di soddisfare flussi desideranti di moltitudini di Deleuze e di Negri del tempo con il codino incipriato e con le calze di seta, ma di organizzare in modo alternativo la produzione sociale.

Questa produzione sociale deve essere pensata in modo omogeneo, e questo comporta filosoficamente il pensarla sotto tre coordinate assolutamente astratte: l'Umanità, la Storia e la Materia. Non a caso l'umanesimo, lo storicismo ed il materialismo moderno nascono tutti e tre nel Settecento. L'Umanità è una astrazione, pensata attraverso l'unificazione simbolica di tutte le diverse etnie, stirpi, nazioni, religioni, eccetera, in una sola soggettività razionale che si scambia legalmente merci prodotte da un lavoro umano reso astratto dall'egualitarismo giuridico e politico. La Storia è una astrazione, pensata attraverso una concezione unitaria dei flussi temporali che consentono all'umanità di progredire. La Materia e un'astrazione, pensata attraverso l'edificazione di uno spazio omogeneo e pieno in cui le merci possono dirigersi di qua e di là senza ostacoli, e soprattutto senza l'interferenza di un Dio che abita in un altro spazio ed in un altro tempo.

Una parentesi. Se i marxisti fossero all'altezza del loro padre spirituale Marx, avrebbero capito da tempo che l'Umanesimo, lo Storicismo ed il Materialismo non sono elementi di una nuova filosofia comunista anti-borghese e post-borghese, ma sono elementi strutturali della visione del mondo integralmente borghese-capitalistica. È il mondo borghese-capitalistico che deve astrattizzare ed omogeneizzare simbolicamente (e fittiziamente) il Soggetto (l'umanità), il Tempo (la storia) e lo Spazio (la materia). Se un giorno avremo qualcosa di simile ad una specie di comunismo, questi universali astratti saranno indubbiamente modificati, e non si avrà più né umanesimo, né storicismo, né materialismo.

Lo capiscono questo i marxisti? Ma non scherziamo. Ma neppure per sogno. Ma neanche per sbaglio.



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