zingari, rom, kosovo, profughi



La palude e gli arazzi





Kadri (al centro) con i suoi amici Nenad e Medo

 
 
Siamo oltre le periferie, oltre l'interminabile successione di caseggiati popolari, oltre l'autostrada. Finisce anche l'asfalto, di fronte ai cancelli di una fabbrica con la ciminiera più alta che abbia mai visto. 

Lì dove finisce tutto inizia il mondo della Misheveçka. Gli argini alti della Sava a destra, un verde selvaggio e umido che cresce sui rifiuti, a sinistra il filo spinato di una linea ferroviaria, sotto di noi buche nel fango grosse come laghi. 

Andiamo avanti, ancora avanti, e poi arriva un'improvvisa roulette russa: bisogna svoltare bruscamente a sinistra, facendo contemporaneamente di corsa una ripida salita senza alcuna visibilità, attraversare i binari a un passaggio a livello incustodito sperando che non passi un treno, per scendere giù dall'altra parte. 

 E ancora avanti attraverso spine e arbusti fino a due case proprio in mezzo alla palude. Mancano forse due ore al tramonto. 

La prima casa è quella di Kadri, la seconda - sapremo poi - quella di uno dei suoi sei fratelli maschi. 

Corrono fuori i bambini. Una, di forse sei anni, l'immagine di Reska da piccola, che ci guarda. E sul suo volto compare un'espressione unica, qualcosa che nessun attore riuscirebbe mai a riprodurre: il massimo di gioia e il massimo di dolore insieme che un essere umano possa dimostrare. "E' Reska!" Eppure questa bambina non ha mai visto la zia, sa solo che esiste questo sogno impossibile di liberazione. Per tutta la serata, la bambina si aggrapperà al collo della zia. 

Entriamo nella casa. Violando ogni etichetta, mi tengo le scarpe ai piedi. Il diritto, certo, di un ospite, ma io lo faccio perché mi considerino uno stupido qualsiasi, l'accompagnatore straniero. 

Il salotto della casa. In fondo, la cucina e un grande arazzo che raffigura il pellegrinaggio alla Kaaba. Come in tutte le case musulmane, una pila di materassi per gli ospiti. Alle pareti le foto, il padre di Kadri su un arido sfondo di monti e cactus; il nonno di Kadri vestito da gentiluomo ottomano, con fez e gilet; una delle bambine vestita di bianco e carica di ori come una piccola sposa. 

Sul divano c'è lui. Kadri. Ha la pelle chiara, potrebbe sembrare un italiano se non fosse per il suo nome tatuato sul braccio. Trent'anni, capelli ricci, braccia granitiche e grandi mani, una pancia grossolana di cui va fiero, segno quasi fisico del possesso e del potere. Peserà quattro volte Reska o di più? Non è facile coglierne il segreto, anche perché ci sono troppe barriere di lingua tra me e lui. I suoi movimenti sono rigidi, il volto poco espressivo. Non dà l'impressione di essere molto intelligente. Anzi, a un certo punto penso, o mi illudo, di aver capito qualcosa di lui, mentre esibisce orgoglioso il suo telefonino portatile. Cerco di vederlo come un grande bambino viziato. Non c'è nulla di trascendente nella sua malvagità, soltanto la certezza che tutti sono lì per servire ai suoi comodi o, in alternativa, per morire.