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I gabbiani gridavano i loro nomi




Bambini al campo di Brescia

 
"Visto da questa estrema periferia del mondo, tutto è più chiaro. Là, a non più di un chilometro di distanza, sotto i grandi tiranti d'acciaio dello Stadio, irto di torri e di tralicci come un maniero medievale, si esibiscono con stanca regolarità ogni domenica uomini 'quotati' ormai nell'ordine dei 50, 60, talvolta 70 miliardi di lire… Qui, in questa terra di nessuno brulla, spoglia, morta, al di qua dell'immensa spianata grigio-cemento dei posteggi, dei magazzini e dei capannoni industriali, abitano uomini il cui valore monetario s'avvicina allo zero assoluto. Quelli per cui non si paga l'acquisto, ma l'espulsione." 
Marco Revelli, Fuori luogo: cronaca da un campo rom, Bollati Boringhieri, Torino 1999
 
 
C'è una storia che quasi certamente non conosci. Come potevi? Non te l'ha mai raccontata nessuno. 

Un ragazzo di terra da solo sul mare, solo tra il sale dell'abisso e il sole d'agosto. È un Rom su un pezzo di legno. Passano i giorni e passano le notti. Lo trovano i pescatori. È l'unico vivo. Erano in centocinque e lui è l'unico che è rimasto. 

Centoquattro corpi a nuoto lento, alla deriva, davanti al Montenegro, centoquattro corpi ammorbiditi, addolciti, scolpiti, erosi dall'acqua; c'è anche un termine scientifico, saponificazione.  

Murat lavora in una fabbrica a Bergamo. Va dagli usurai che anche tra i Rom s'ingrassano di miseria e fa un debito per tirar fuori suo nipote dal Kosovo.  

Il ragazzo arriva vivo. Ma tredici parenti della moglie di Murat erano sulla nave affondata. Tredici parenti. Ricordi, risate, affetti, gelosie, odi furiosi, scherzi - saponificati, accarezzati e mordicchiati dai pesci. 

Murat è andato fino in Montenegro per riconoscere quei ciottoli bianchi di carne, dove erano riconoscibili solo i nomi tatuati secondo antico costume sulle braccia - gli strani nomi dei Rom, infinitamente diversi tra di loro. 

 

"Bombing slot"

Avevo conosciuto Bajram e Rezijana Berisha a Verona nel 1992. Una visione non insolita: Reska - come la chiamano in genere - è  una "zingara" proveniente dal Kosovo, su una sedia a rotelle, che accoglie in silenzio la carità, più che chiederla; e vicino a lei, a volte, suo padre. Facile malignare, immaginandosi che alla fine della giornata la ragazzina ripieghi la sua carrozzella da finta invalida e dia a suo padre i soldi per andarseli a bere all'osteria.  
 


Reska
 Non ho conosciuto Bajram e Reska nel luogo dove chiedevano l'elemosina. Li ho conosciuti in un tratto desolato delle sponde dell'Adige, periferia postindustriale. Lei era davvero su una carrozzella, fulminata dalla poliomielite a tre anni; lui faceva saltuariamente lavori in nero. Solo quando non lo chiamavano al lavoro andava a far compagnia a sua figlia. Nessun dubbio, i soldi che rimediavano non se li andava a bere.  

Per sette anni, non avevo saputo più nulla di loro: sapevo solo che si erano trasferiti a Brescia. Poi ho sentito di cosa stava succedendo in Kosovo. Era una realtà sdoppiata: c'erano tutti i dolori reali di cui i Balcani sono carichi; ma c'era anche la loro improvvisa trasformazione in spettacolo di guerra. Sarei stato disposto ad ascoltare le persone reali, ma come si poteva stare a sentire i portavoce della NATO quando dicevano che i serbi avevano creato una piccola Auschwitz nelle miniere di Trepça, dove sembra che in realtà non sia morto nessuno? Mi sono perso i filmati dei profughi trasportati in Italia con le navi di Stato, o quelli che magnificavano le lucenti macchine per uccidere dell'aviazione degli Stati Uniti.  

In quei giorni ero  andato a prendere all'aeroporto un uomo d'affari arrivato dalla Germania, che si scusava per il ritardo - era dovuto al "bombing slot", la fascia oraria dei bombardamenti. Per intenderci, omicidi aerei dalle 9 alle 11, uomini d'affari dalle 11 in poi, tutti lì ad aspettare pazienti con le loro valigette ventiquattrore.  

È solo dopo, quando hanno calato il sipario e dichiarato che lo spettacolo era finito, inevitabilmente con il trionfo dei buoni, che ho cominciato ad ascoltare. In piccoli trafiletti qua e là, leggevo che un intero popolo veniva sradicato. Proprio mentre i soldati di Clinton giocavano al trionfo facendo il loro ingresso a Prishtina, i Rom venivano scacciati da una terra in cui erano vissuti per secoli. Migliaia cercavano di attraversare l'Adriatico in condizioni terribili, mentre D'Alema rassicurava i perbenisti d'Italia - "li rispediremo tutti a casa". Alcuni donatori scrivevano sui pacchi che mandavano all'Operazione Arcobaleno, "solo per gli albanesi, non per gli zingari."