Bufale del terrore III
Inchiesta di Repubblica
 



Una partita di pallone che era una partita di pallone


Terza puntata dell’inchiesta de “La Repubblica” sul “terrorismo islamico” in Italia. Si consiglia di leggere anche l’articolo sullo studio di Carlo Corbucci sullo stesso tema e gli articoli su Magdi Allam, uno dei principali creatori della psicosi terrorista in Italia.

Su questo sito troverete anche:

Un commento introduttivo di Miguel Martinez

La prima puntata dell’inchiesta – le "veline" degli 007 che hanno fatto tremare l'Italia

La seconda puntata dell’inchiesta – “Prove false e traduzioni sbagliate. Indagini boomerang su Al Qaeda.

La seconda puntata dell’inchiesta – “Prove false e traduzioni sbagliate. Indagini boomerang su Al Qaeda.


Le indagini di Milano e le divisioni tra i magistrati sulla definizione dei reati

Quando la caccia ad Al Qaeda mette a rischio lo Stato di diritto

di Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo


"VELINE" DEI SERVIZI E INDAGINI MANIPOLATE

L'articolo pubblicato in queste pagina completa un'inchiesta di Repubblica sui problemi legati alte investigazioni contro laminaccia del terrorismo islamico. La prima puntata era dedicata alle "veline", spesso troppo generiche, con le quali i servizi segreti hanno segnalato rischi di attentati alle metropolitane e al Vaticano. La seconda puntata ha rivelato falsi e manipolazioni che hanno causato il "flop" di numerose inchieste

Integralisti e militanti della jihad (la guerra santa) sono già qui, tra noi, accanto a noi, nelle nostre città, nei nostri mercati, si dice. Call center, agenzie di viaggio, macellerie coraniche, lo spaccio della droga finanziano l'addestramento dei kamikaze. A Milano, a Torino, non a Karachi o a Istanbul. Nelle moschee e nei centri culturali, si dice, i terroristi si rendono invisibili. In quei luoghi "protetti" e di difficile penetrazione trovano solidarietà, complicità, finanziamento, appartamenti da abitare, documenti falsi da esibire.


Il risveglio di una cellula in sonno

Tra di loro, si dice, ci sono le «cellule in sonno» di Al Qaeda pronte ad "attivarsi" a un segnale prestabilito, magari lanciato con un proclama consegnato da Osama bin Laden ad Al Jazeera o con una mail via internet. Come ci si difende da una «cellula in sonno», come ci può proteggere da un solo uomo che, una mattina qualsiasi, si sistema alla cintola cinque chili di tritolo, entra nel metrò da una lontana stazione di periferia e si fa esplodere in centro? Non ci si può difendere. Si può raccomandare l'anima a Dio, affidarsi ai passi obliqui del Caso o controllare e assediare, come fossero assassini potenziali, tutti gli altri "diversi" da noi. E’ questa la rappresentazione della realtà che ci imprigiona nella convinzione di «avere la guerra in casa», come dice Marc Augé (Diario di Repubblica, 3 dicembre 2003). La paura deforma la nostra percezione della realtà, diventa «il sistema d'interpretazione del mondo». Per comprendere se la nostra paura di oggi è alimentata da fantasmi o da tranche di realtà che segnalano un pericolo «imminente e concreto»,«chiaro e immediato» bisogna raggiungere Milano. E' qui che l'investigazione poliziesca è riuscita a infiltrare la sonda più seria e attendibile nel mondo islamico e combattente. E' qui che si stanno celebrano (e si sono celebrati) i processi-cardine, diciamo così, della lotta al terrorismo internazionale in Italia. Due dei tre rami processuali, in cui quell'investigazione si è frammentata, hanno già avuto un primo conforto dibattimentale con una serie di pronunce di condanna(tre sentenze di colpevolezza punite con un massimo di sei anni. Un solo imputato assolto).

L'indagine - documentata nelle istruttorie del pubblico ministero Stefano Dambruoso - consegna la fotografia di una «cellula» che, a partire dal 1999 e almeno fino alla fine del 2001, è il presidio in retrovia di un network terroristico che risponde direttamente al vertice gerarchicodi Al Qaeda. Con più precisione, a quel Ayman Al Zawahiri che l’intelligence di mezzo mondo ritiene essere il braccio destro, il complice eil consigliere politico di Osama Bin Laden. Quella italiana, è una cellula a composizione etnica «mista»che non conta più di una quindicina di nomi, con una prevalenza della componente tunisina suquella algerina e marocchina.


Il pubblico ministero Stefano Dambruoso

Svolge funzioni esclusivamente "logistiche". Reclutamento dei volontari destinati alla Jihad (ieri in Bosnia e Afghanistan, oggi in Iraq), ricettazione, contraffazione di documenti di identità e permessi di soggiorno.

L'Italia - dove la cellula si è mimetizzata - non compare mai tra i suoi obiettivi. Ma dall'Italia, lungo una direttrice che tiene insieme Milano-Torino-Varese-Como, si dipana il filo di una cospirazione clandestina che ha al centro Abdelkader Es Sayed (latitante che molti danno per morto in Afghanistan), Ben Khemais Essid Sami (detenuto in Italia e condannato), Tarek Maaroufi (il reclutatore della filiera tunisina in Europa, sottoposto al programma di protezione dei testimoni in Belgio) e quale suo «referente europeo» Abu Doa, che a Londra cura e pianifica per anni l’avviamento dei volontari della Jihad verso i campi di addestramento afghani.

Milano viene dunque individuata come luogo funzionale, «fondamentale» - lo ha ripetuto non più tardi del 7 gennaio scorso il pm Dambruoso nell'aula dove questa settimana si chiude il processo alle infiltrazioni nella moschea di viale Jenner - per attività di cosiddetto supporto logistico. E del resto, in tre anni di indagini, non una pistola, non un proiettile, non un panetto di esplosivo sono stati mai rintracciati.

La circostanza dovrebbe rassicurare ma, al contrario, alimenta e moltiplica l'apprensione.Le modalità con cui Al Qaeda ha pianificato l'11 settembre, convincono gli investigatori che il termine «cellula» non sia più sufficiente a definire un fenomeno. Per specificare la sua «nuova natura» si deve affiancare a quella formula il termine «in sonno». Dove il «sonno» è una condizione di imprevedibile quiete (ovvero «di ridotta offensività», quale può essere la contraffazione e la ricettazione dei documenti) cui al semplice ricorrere di un ordine (non importa se impartito dal vertice dell'organizzazione), seguirà , «necessariamente», quella della "veglia", dell'azione. Dunque, dell'assalto mortale.

La «cellula in sonno» è una rappresentazione investigativa irrobustita dalla suggestione e dalla logica perché interpreta adeguatamente le paure liberate dall'orrore dell' 11 Settembre. Di più. Trova un suo «riscontro» - tale è per gli investigatori - nei "luoghi" in cui la cellula si annida e si confonde, predica il suo verbo, sceglie le proprie guide spirituali. A Milano, l'Istituto Culturale di viale Jenner.

La moschea è sotto la lente della polizia italiana almeno fin dalla metà degli anni '90, quando ne è imam Omar Shabbani, destinato a morire presto in Bosnia al comando di un battaglione volontario di mujhaeddin. Ma è anche un vecchio pallino dei servizi segreti francesi e americani. In quella moschea - sostengono a Washington - c'èchi legge il Corano con parole che incitano all'odio. In quello stagno nuotano e crescono pesci destinati a risalire la gerarchia del Terrore.

Ne va dunque prosciugata l'acqua.Chiudere la moschea non è strada praticabile e - dunque - si sceglie di trasformarla in luogo di "ascolto".Le "cimici" ne registrano ogni parola. Attività di prevenzione e indagine di polizia giudiziaria diventano una cosa sola. Il confine tra intelligence e ricerca circostanziata di prove e responsabilità si fa sottile come carta velina. Un esempio.

Tra la fine di novembre e l'inizio di dicembre del 2001, i nostri apparati investigativi ricevono informazioni di intelligence che danno come imminente un attentato in Italia. In una conversazione ascoltata dalla Digos di Milano, si discute di una partita a pallone.Di una “squadra pronta a giocare con gli amici della Germania». Uno degli interlocutori è Yassine Chekkouri, bibliotecario della moschea. Quell’uomo 'difficilmente si allontana dai locali di viale Jenner. Dunque, che cosa significa quella roba lì? Si conclude per un imminente attentato in Germania. Come tale, l'informazione sarà diffusa, quando s'ammanetta Chekkouri. L'istruttoria accerterà, per iniziativa dello stesso pm, che si trattava effettivamente di una partita di pallone.

L'episodio segnala un problema. Sollecita una preoccupazione che, oggi, comincia ad affacciarsi tra gli addetti. Ragiona un investigatore con Repubblica: «Normalmente, la consistenza di un fenomeno criminale, quale che esso sia,traffico di droga o terrorismo islamico, è soggetta alla verifica empirica dell'indagine. Mi spiego. Se nell'arco di un anno, constato che i sequestri di eroina a Milano sono cresciuti, questo significa che sulla piazza affluisce più stupefacente. Bene. Prendiamo ora le cellule in sonno. Se dopo che si sono consumate due guerre, in Afghanistan e in Iraq, constato che le "cellule in sonno" restano in uno stato di quiete; che, addirittura, in molti casi l'interpretazione che è stata data alle loro conversazioni si dimostra possibile, ma comunque soltanto possibile, allora devo concludere che forse la formula "cellule in sonno" va rivista. Che sta accadendo qualcosa che ci sfugge».

II ragionamento dell'investigatore ha una sua immediata conferma in quel che è accaduto e sta accadendo a Milano, proprio nell'aula dove si celebra il terzo dei processi ai cinque imputati della "cellula" di viale Jenner. Per la prima volta - non era mai accaduto - i periti nominati dal Tribunale hanno riscritto o comunque liberato da ogni suggestione le centinaia di ore di intercettazioni a carico degli imputati. Hanno riportato la materia del contendere ad affare giudiziario e un affare penale misura non l'ipotetica, possibile capacità offensiva di una "cellula in sonno", la sua capacità di "sovvertire l'ordinamento democratico di uno Stato estero", ma la concreta responsabilità per reati minori (falso e ricettazione) considerati strumentali al raggiungimento di un fine terroristico (non necessariamente definito).

E' accaduto cosi - ed è solo un esempio – che l'accusa di proteggere la propria attività clandestina dietro "alias" sia evaporata a fronte di una più corretta comprensione dell'uso dei patronimici, nella lingua araba. Spiega l'avvocato Simona Carolo, difensore di Nabil Ben Attia:

«Spesso, nelle conversazioni telefoniche intercettate, il mio cliente, Nabil, viene chiamato Abu Selim, come accade che l'imputato Es Sayed diventi Abu Saleh. Perché? E' molto semplice. Nella cultura araba, quando un uomo mette al mondo un figlio maschio, il suo nome di battesimo può essere sostituito dal termine "padre di.."

Ora, Abu Selim, significa "padre di Selim", che è il nome del figlio maschio di Nabil Ben Attia». Ancora:

«L'indagine conclude che l'uso del verbo arabo lassak nei dialoghi degli imputati conferma l'attività dicontraffazione dei documenti perché traducono "lassak" con "incollare". Ora "lassak", ci hanno spiegato i periti del tribunale, è un verbo polisenso in arabo, ma, soprattutto, non risulta essere mai stato pronunciato durante le conversazioni. Il perito dell'accusa ha sentito qualcosa che non c'era. Meglio,ha avuto l'impressione di sentire qualcosa mai pronunciato. Non dico che c'è malafede in chi indaga. Anzi, lo escludo. Dico solo che la suggestione per chi lavora gomito a gomito con gli investigatori è fortee può produrre errori da cui bisogna guardarsi».

Il pm Stefano Dambruoso non si nasconde il problema, ma ne capovolge la prospettiva.

«Al di là di singole traduzioni non condivise, l'intero contesto di conversazioni tradotte dal nostro interprete ha un contenuto assolutamente autentico. Con tutto il rispetto degli interpreti che vengono utilizzati nel nostro Tribunale, abbiamo imparato che la qualità delle traduzioni non sempre è tale da soddisfare la richiesta prima investigativa e quindi del Tribunale per acclarare un determinato fatto. Ma abbiamo anche imparato che gli interpreti che appartengono alle comunità di appartenenza dei vari imputati hanno il terrore di svolgere un' attività di collaborazione continuativa con gli organi investigativi, perché evidentemente non vogliono passare per i traditori della comunità,per quelli che loro chiamano "i serpenti". Per giunta, per quattro lire di compenso. Il nostro interprete ha ascoltato la cellula di viale Jenner per tre anni consecutivi. Ha imparato a cogliere le sfumature e le tensioni delle voci dei suoi membri».


"Ha imparato a cogliere le sfumature e le tensioni delle voci"

La sfumatura in un tono di voce, certificata da un perito, può trasformarsi davvero in una fonte di prova indiscussa? Non è questo un modo preoccupante di chiedere fede assoluta nelle verità delle fonti ufficiali?

Inquieta questo desiderio di trovare «il nemico tra noi». Un investigatore racconta che, dopo 1'11 settembre, la pervasività della minaccia ha in qualche modo allineato le regole e i metodi investigativi del nostro Paese alle routine di Washington e al contesto geopolitico.Gli addetti non si nascondono il problema e si chiedono fino a quando si potrà restare «prigionieri della paranoia americana che trasforma la pericolosità possibile in responsabilità accertata». Diciamolo in altro modo. Se conosco e frequento un uomo del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento o sono stato, cinque anni fa, qualche settimana in Afghanistan in un campo di mujaheddin sono senza dubbio pericoloso per il Paese che mi ospita. Ma sono sufficienti quei trascorsi per giustificare il mio arresto e una condanna penale a dieci anni? Sono «pericoloso» se rispetto il principio coranico della zakat, l'offerta legale,tra cui scopi vi è anche la difesa dell'islam? «E' problematico provare che proselitismo e propaganda ideologica si traducono automaticamente in favoreggiamento delle organizzazioni terroristiche - sostiene Renzo Guolo, studioso dei fondamentalismi contemporanei-. La distinzione tra l'appartenenza all'isliam radicale o alla sua ala jihadista è spesso sottile, ma paradossalmente coincide con quella che separa i reati d'opinione da quelli di terrorismo».

E' utile dunque chiedersi dove passa il confine tra la professione di un fondamentalismo religioso e l'essere terroristi. Dalla definizione di quel confine dipende la sostanza del concetto di «pericolo chiaro e immediato» che è presupposto della Guerra al Terrore e il perno dell'offensiva lanciata nel nostro Paese contro il terrorismo islamico.

«Pericolo attuale e concreto». E'una formula di cui vale la pena fare una breve storia. A partire dallo«SmithAct».

«Lo Smith Act fu una legge pensata inizialmente contro i comunisti, dopo che i rapporti Usa-Urss,

instaurati nel 1933, si erano andati deteriorando, e tornata di attualità col crescere dei regimi fascisti e autoritari in tutta l'Europa. Promulgata nel 1940, prevedeva l'incriminazione di chiunque avesse incitato, insegnato o propagandato il rovesciamento delle istituzioni democratiche e l'istigazione a disobbedire fatta ai membri delle forze armate.

Approvata a grandissima maggioranza il 28 giugno 1940, lo"Smith Act" fu utilizzato dal ministro della giustizia Tom Clark (Truman presidente) per chiedere l'incriminazione, il 28 giugno 1948, dei dodici membri del consiglio nazionale del partito comunista americano accusato di "insegnare e propugnare il rovesciamento e la distruzione del governo degli Usa".(...) Il giudice incaricato del provvedimento, che si chiamava Harold Medina, accettò l'impostazione dell'accusa, fece del procedimento contro i dirigenti comunisti un processo squisitamente ideologico, stabilì infine che dieci degli imputati venissero condannati a cinque anni di carcere. (...) Un anno dopo, la Corte d'Appello esaminò il ricorso della difesa. La Corte era guidata dal giudice Learned Hand, una delle menti giuridiche più brillanti dell'epoca, particolarmente attento ai diritti degli imputati. Malgrado ciò, egli ritenne corretta l'impostazione e l'atteggiamento del giudice Medina, respinse l'ipotesi che lo Smith Act costituisse una violazione del Primo emendamento, riformulò la regola del "chiaro e immediato pericolo"che poteva giustificare la temporanea limitazione della libertà di espressione». (Marcelle Flores,L'età del sospetto, II Mulino, pag.172/177).

Non è soltanto la formula del«chiaro e immediato pericolo» a creare qualche nebbia. Anche il concetto di«associazione terroristica internazionale» deve trovare una sua più definita sistemazione. L'interpretazione di quel reato partorito dall'orrore dell'11 settembre divide i nostri tribunali. La materia è ancora fresca, perché le norme che hanno introdotto nel nostro codice l'articolo 270 bis cercano ancora una giurisprudenza condivisa. A Milano si raccolgono due interpretazioni divergenti di come intendere quella associazione del terrore.

Il giudice dell'udienza preliminare di Milano, Renato Bricchetti, il16 settembre 2003, assolve dall'accusa di terrorismo il tunisino Mekki Ben Imed Zarkaoui con una premessa in cui si legge: «La prova della sussistenza del delitto associativo di terrorismo internazionale impone la dimostrazione dello scopo terroristico. Esige che venga esternato un proposito serio, preciso, circostanziato di porre in essere atti di violenza determinati, idonei a mettere in pericolo l'incolumità sociale e a diffondere il terrore nella collettività. (...) La prova di questo proposito non può desumersi dal coinvolgimento degli imputati nell'attività di contraffazione di documenti perché resta la possibilità che queste attività siano finalizzate a realizzare altri scopi».

Due mesi dopo, il 25 novembre2003, un altro gip di Milano, Guido Salvini, capovolge l'impostazione,spostando in avanti il confine tracciato da Bricchetti. Nel disporre la cattura dei presunti "kamikaze" diAl Ansar, scrive: «Per configurare la sussistenza del reato di terrorismo internazionale è sufficiente che una struttura organizzata, costituita anche solo in parte in Italia, si prefigga con mezzi adeguati di eseguire atti di terrorismo anche al di fuori del territorio nazionale. Nel nostro Paese può avvenire quindi solo parte della condotta e, in ipotesi, neanche la più grave, quale il mero supporto logistico degli associati destinati ad agire all'estero».

In gioco, appare chiaro, c'è l'equilibrio tra sicurezza e stato di diritto. Il confine tra reati di opinione e reati di terrorismo. Il primo ad essersene reso conto è stato il ministro dell'Interno. Giuseppe Pisanu ha compreso che le categorie giuridiche occidentali, le nostre regole e procedure possono risultare inadeguate a documentare le responsabilità dei potenziali terroristi. E uttavia non si possono deformare le regole del processo - ha detto - senza violare i diritti e la libertà dell'individuo. Il ministro si è risolto cosi a prendere sulle sue spalle per intera la responsabilità di «isolare e mettere in condizioni di non nuocere» gli islamici intolleranti e i violenti. In base al principio del«chiaro e immediato pericolo» ha espulso per via amministrativa personaggi sospettati di essere una minaccia per la sicurezza nazionale. Lo ha fatto rimandando a casa sette immigrati, chiarendo pubblicamente che era una decisione «eccezionale», frutto di un potere eccezionale che avrebbe usato con parsimonia e responsabilità. Il problema è tutto qui. Al di là del rispetto generale che raccoglie il ministro dell'Interno, si può attribuire a un uomo, soltanto a un uomo, il potere di sospendere lo Stato di diritto? E' sufficiente«parlamentarizzare» queste decisioni per liberarsi da ogni dubbio?Quanto lo Stato di diritto può essere compresso (a quali condizioni,con quali contrappesi e controlli) per difendere la sicurezza nazionale? Sono domande che spetta al dibattito pubblico sciogliere. Un dibattito che sarà più fertile e responsabile, se il ruolo dell'intelligence,delle forze di polizia, della magistratura e dei media non sarà emotivo, prigioniero di pregiudizi e di ideologismi.

(3. fine. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 24 e 26 gennaio)


SU VIA JENNER:

MILANO — Viale Jenner 50 è diventato uno degli indirizzi più noti di Milano. Corrisponde all'Istituto culturale islamico, dov'è aperta anche una moschea molto frequentata, e non raramente sfiorata dalle indagini sui contatti europei di Al Qaeda, l'organizzazione di Osama Bin Laden. è anche dì questo che discuteranno i giudici dell'ottava sezione penale, da ieri in camera di consiglio. è davanti a loro che s'è celebrato il terzo processo milanese alla cosiddetta retrovia italiana dei mujaheddin. L'accusa, per quattro su cinque di questi presunti membri della "cellula logistica", ha chiesto sette anni e mezzo. La difesa vuole una totale assoluzione.Entro venerdì, probabilmente, la sentenza.

In estrema sintesi, l'accusa inserisce! Cinque imputati nella stessa organizzazione del Gspc (Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento) che, via via scoperto, ha già portato — nel 2001, ma sei mesi prima degli attentati dell'11 settembre — all'arresto di Sami Essid Ben Khemais, detto Omar il viaggiatore, e alla sua condanna, già passata in giudicato. Dopo questa prima fase, sono stati condannati per la falsificazione dei documenti altri stretti compagni di Sami. Poi è stato grazie a Ben Heni Lased, un libico che abitava a Monaco, che si è arrivati alla terza fase dell'inchiesta: il libico, secondo l'accusa, faceva parte del gruppo che aveva a Francoforte armi ed esplosivi, e voleva organizzare un attentato a Strasburgo. Proprio seguendo lui, si è arrivati a questo gruppetto che gravitava intorno a viale Jenner.

Per i pm, i cinque imputati sono dunque responsabili di reati gravissimi, dall'associazione a delinquere finalizzata al traffico di esplosivi e aggressivi chimici al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Sullo sfondo,hanno messo in evidenza che a Guantanamo, nelle celle cubane gestite dalla polizia Usa, ci sono parenti e amici degli imputati.

La difesa, viceversa, punta sui dubbi lasciati dalle intercettazioni e dalle traduzioni dall'arabo, e sul fatto — incontrovertibile — che in Italia non siano state trovate armi. Il lavoro delle varie "intelligence" non avrebbe raggiunto la valenza di prove degne di un'aula di tribunale.Non poche udienze sono state incandescenti,con insulti e minacce da parte degli imputati all'indirizzo dei pubblici ministeri, Stefano Dambruoso ed Elio Ramondini.

Va detto che Abdelhalim Remadna, ex factotum dell'Istituto culturale islamico,Tassine Chekkouri, ex bibliotecario di viale Jenner, NabilBenattia e Ben Heni Lased,dalle gabbie hanno ripetuto sempre una frase: «Non siamo terroristi». E che del principale imputato, AbdeikaderEs Sayed, che aveva mollato viale Jenner per la più defilata moschea di via Quaranta,non si sa nulla da tempo: potrebbe essere morto sotto i bombardamenti di Torà Bora, in Afghanistan.

(p.col.)



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