Bufale del terrore II
Inchiesta di Repubblica
 



Clochard avvelenatori, un dépliant del McDonald's e critici d’arte poco accorti


Seconda puntata dell’inchiesta de “La Repubblica” sul “terrorismo islamico” in Italia. Si consiglia di leggere anche l’articolo sullo studio di Carlo Corbucci sullo stesso tema e gli articoli su Magdi Allam, uno dei principali creatori della psicosi terrorista in Italia.

Su questo sito troverete anche:

Un commento introduttivo di Miguel Martinez

La prima puntata dell’inchiesta – le "veline" degli 007 che hanno fatto tremare l'Italia

La terza puntata dell’inchiesta – “Quando la caccia ad Al Qaeda minaccia lo Stato di diritto”.


Molti arresti in Italia, ma spesso le verifiche processuali smontano le accuse

Prove false e traduzioni sbagliate - indagini boomerang su Al Qaeda

di Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo


A voler stare ai numeri, tra il 2001 e la fine del 2003, la presenza di cellule di Al Qaeda in Italia si fa affare serio. Le statistiche che il ministro dell'Interno Giuseppe Pisanu consegna,il 28 novembre scorso, a Bruxelles ali 'Unione europea segnalano un aumento esponenziale degli arresti. Che passano dai 33 del 2001, ai 64 del 2002, ai 71 del 2003. La circostanza segnala e giustifica la persistenza di un allarme, guadagna al Paese il plauso degli alleati nella Guerra al Terrore.

Le forze di polizia utilizzano estensivamente le norme del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza che consentono perquisizioni sollecitate dal semplice sospetto. Le Procure della Repubblica hanno, nelle nuove norme del codice di procedura penale licenziate all'indomani dell'11 settembre, uno strumento duttile che consente di contestare l'«associazione terroristica» internazionale anche in presenza di reati minori,quali la ricorrente contraffazione di documenti, purché strumentali a un disegno eversivo dagli obiettivi finali pure semplicemente abbozzati.

Epperò, come ogni statistica, i numeri, in sé, possono ingannare. O, quantomeno, disegnare un quadro monco. Dal settembre 2001 a oggi, infatti, le indagini che spazzano il Paese da Milano a Caltanissetta, non producono un solo ritrovamento significativo di armi, non un sequestro di esplosivo. Di più: le prime verifiche processuali sconfessano spesso il lavoro investigativo, smentendone talvolta la fondatezza o riducendone significativamente la portata. In qualche caso, rivelando addirittura una evidente manipolazione delle fonti di prova,un loro abborracciato trattamento e qualche suggestiva valutazione. è accaduto a Roma, a Bologna, a Napoli, a Caltanissetta. è accaduto troppo spesso per archiviare gli episodi come semplici incidenti di percorso. Accade troppo spesso per non sollecitare domande sul metodo con cui molte indagini - non tutte, evidentemente – vengono condotte.

Ecco qualche esempio.

L'1 marzo 2002, tre iracheni di etnia curda – Muhamed Ahmad Isa, Muhamed Salah Faysal e Kadir Ali Hemin - vengono arrestati dai carabinieri alla stazione Termini mentre stanno per salire su un treno diretto a Parigi. Sono accusati dalla Procura di Roma di aver pianificato un attentato terroristico con usodi armi e cianuro. L'operazione fa rumore. Riscalda le cronache perché, si dice, «conferma» Roma oggetto di una «imminente azione eclatante», dal momento che, non più tardi di due settimane prima, 11 marocchini sono finiti in carcere con l'accusa di essere «pronti ad avvelenare»le condutture dell'acqua potabile dell'ambasciata Usa di Roma.


"Tre iracheni di etnia curda arrestati mentre stanno per salire su un treno"


La «prova che inchioda» i tre disgraziati è una intercettazione ambientale del 20 febbraio 2002 registrata nei locali del centro di preghiera "Al Harmini" di via Gioberti. La conversazione - annotano i carabinieri - «è in italiano e ha una durata di 3 minuti e 36 secondi».

Leggiamo il verbale: «...Eemerso che all'interno della citata moschea il giorno 20 febbraio 2002, alle ore 10,12.04,nel corso di un incontro tra due soggettisi è sviluppata la seguente conversazione:

Interlocutori: Due uomini

"Per me sono venuti... "

"Sono venuto da lì"

"Dove sono? Possiamo prenderla?"

"Passiamo a prendere le ARMI"

"Che armi?"

"Le armi sotto"

"Entriamo a piedi?"

"Io già lo so... via Celimontana"

"Quindi dirai che hai lo stesso indirizzo"

"Chiedigli che panni uso io"

"Mi aiutano, non ho il vestito" "via dello Statuto... via Quattro Fontane"

"Ciprian, questo è veleno!"

"... Vuole prendere CIANURO!"

Terza persona sullo sfondo:

"SUDATINA!"

". ..Chi potrebbe farlo!".

Non sembra esserci spazio per equivoci. Anche se, a dispetto di quanto verbalizzato dai carabinieri, almeno un paio di circostanze appaiono incongruenti: nessuno dei tre curdi iracheni parla una sola parola di italiano, né i carabinieri sono stati in grado di trovare il cianuro e le armi, cui pure i tre farebbero riferimento. Ma è un "dettaglio" ritenuto ininfluente, quanto la versione dei fatti proposta dagli arrestati (9 mila dollari per lasciare clandestinamente l'Iraq, 12 giorni di marcia nel deserto e 45 sequestrati in un lurido sottoscala in Turchia. Quindi, le coste italiane, dove vengono raccolti per essere avviati ad un centro di accoglienza, da cui si allontanano per provare a raggiungere Parigi. L'arrivo a Roma e qui, per qualche giorno, il bivacco tra i cartoni nei giardini di Colle Oppio, prima di trovare temporanea accoglienza nel luogo di culto di via Gioberti, dove lavarsi e pregare).

Accade tuttavia l’imprevedibile. Il 16 settembre 2002, Antonio D’Arienzo, perito nominato dalla difesa d’ufficio, fa una singolare scoperta. La conversazione intercettata, oltre ad essere di difficile decrittazione, non è in italiano. Non solo, il perito aggiunge: “Non una delle frasi trascritte è percepibile, nemmeno quelle parole che, se anche il dialogo fosse stato in lingua diversa dall'italiano, comunque sarebbero state pronunciate come scritte. I nomi delle strade, infatti, sia che a parlare sia un arabo, un cinese o un indiano sono quelle e basta. Mi riferisco a via Celimontana, via dello Statuto, via Quattro fontane. Nessuna di queste si sente pronunciare». Il gip Giovanni De Donato, sorpreso dall'esito delle perizia di parte, ne dispone una seconda di ufficio cui D'Arienzo è invitato a partecipare.

Questa volta l'esame viene effettuato sul nastro originale utilizzato dai carabinieri. Le conclusioni - cui contribuisce anche una consulente di lingua araba, curda e irachena, sono sconcertanti. 1) I dialoghi non sono in italiano. 2) I soggetti che parlano sono più di tre. Due gruppi di persone. Per l'esattezza, uno arabo, l'altro curdo. 3)Non si fa mai riferimento ad armi o veleno. Né in lingua italiana, ne araba, ne curda. 4) Le parole "Ciprian", oppure " Sudatina", in realtà sono termini curdi che significano "Come viene chiamato", e "Domani no...".

I tre curdi, assolti dal Gip per non aver commesso il fatto, tornano liberi il 19 novembre 2002, dopo nove mesi di carcerazione preventiva, accompagnati da una"breve" in cronaca.Resta la domanda: a Roma, nel febbraio 2002, circola o è circolato cianuro per colpire obiettivi simbolici quali l'ambasciata Usa? Aveva un fondamento il sali e scendi nei cunicoli sotterranei tra via Veneto e via Bissolati cui per giorni si sottoposero investigatori, cronisti, telecamere e una squadra speciale del Fbi volata direttamente da Quantico a Roma per valutare la falla che rendeva improvvisamente vulnerabile l'ambasciata americana?


Movimenti sospetti di extracomunitari nei cunicoli attorno all'Ambasciata Americana


No, cianuro non ne è circolato. Almeno a voler stare a quelle che sono risultanze processuali oggettive. Gli 11 marocchini arrestati in quelle settimane stanno oggi affrontando di fronte ai giudici di primo grado di Roma il processo che li vede accusati di terrorismo ed è evidentemente prematuro concludere se siano o meno estranei ad ambienti espressione di forme di radicalismo islamico. Se, in altri termini, le 14 mila pagine di intercettazioni che nei loro confronti ha prodotto la pubblica accusa siano sufficienti a consegnargli la patente di militanti di una “cellula in sonno” di Al Qaeda. Ma un fatto è certo. La sostanza di cui vengono trovati in possesso al momento dell’arresto, troppo rapidamente consegnata all’opinione pubblica come “materiale per confezionare una vera bomba chimica” è pressocché innocua o comunque venefica soltanto in altissime concentrazioni e dopo un particolare processo di raffinazione. Non si tratta infatti di cianuro, ma ferro-cianuro. Normalmente reperibile sul mercato, perché il ferrocianuro è utilizzato per schiarire il vino da tavola dai riflessi della lavorazione, come annota la Corte di Cassazione nelle more delle indagini. Non è l'unica sorpresa.

L'avvocato Carlo Corbucci (convertito all'Islam, autore del libro "Il terrorismo islamico in Italia. Realtà e finzione") siede nel collegio di difesa degli 11 imputati. Spiega: «A questa Armata Brancaleone vengono sequestrati quattro chilogrammi e mezzo di ferro cianuro, il cui uso è normalmente innocuo, e che comunque sarebbero sufficienti a rendere velenosa una botte d'acqua soltanto se miscelati e diluiti con apposite spatole. Bene. Fatta questa premessa, ammettiamo che gli imputati avessero potuto raggiungere il punto sotterraneo di imbocco tra il tubo di erogazione dell'acqua potabile e la diramazione dell'ambasciata americana. Per inserire la sostanza avrebbero dovuto staccare l'allaccio della tubatura, al cui interno l'acqua viaggia a quattro atmosfere di pressione. Una forza capace di scaraventare una persona a venti metri di distanza e allagare l’intera galleria in pochi minuti. Difficile, non trovate? Ma diciamo pure che l'impresa fosse riuscita. Per raggiungere una concentrazione venefica di ferrocianuro nell'acqua, tenuto conto della pressione (4 atmosfere),della lunghezza del tubo e della velocità di scorrimento, avrebbero dovuto rovesciarvi 1.800 chilogrammi di sostanza al minuto. Ripeto: 1.800 chilogrammi al minuto, altro che quattro chili e mezzo. Ah, un'ultima cosa... L'acqua avvelenata in questo modo si colora di rosso. Dubito che qualcuno, nell'ambasciata, vedendola, l'avrebbe mai bevuta».

La sproporzione tra la minaccia potenziale del Terrore e gli strumenti con cui si sarebbe dovuta o dovrebbe concretizzarsi è circostanza che non si rintraccia soltanto nell'Operazione cianuro". E' un disequilibrio che alimenta il dubbio anche dei più avvertiti tra gli addetti agli apparati di prevenzione e sicurezza.Ragiona un investigatore: «Sono oltre due anni che indaghiamo in ogni angolo dei Paese. E a questo punto mi domando: è mai possibile che non sia saltato fuori non dico un deposito di armi o munizioni, ma qualcosa che somigli a un concreto strumento di offesa?».

A ben vedere, è accaduto che qualche arma sia stata sequestrata. E' accaduto sempre in quel 2002, un anno chiave. E'una storia che vale la pena raccontare con qualche minuzia.

Anzio, litorale a sud di Roma. 4 ottobre.

Alle due del mattino, tre cittadini egiziani, Shalabei Madi, 50anni, El Gammal Salah, 43 anni,Zahed Mohammed Khaled, 36 anni, vengono arrestati dai carabinieri. El Gammal e Shalabei Madi vengono sorpresi nella casa che abitano in affitto. Il terzo,Zahed Mohammed Khaled, è ammanettato sul ponte del peschereccio "Titanic" su cui lavora come pescatore e abbordato in piena notte da motovedette ed elicotteri. Nel bagno dell'abitazione in cui è stata fatta irruzione, nello spazio tra lo scaldabagno e il soffitto, vengono trovati due involucri ermeticamente sigillali con nastro adesivo che contengono: a) Una pistola "Beretta" calibro 9 corto con numero di matricola intatto, avvolta in un panno di cotone, con il caricatore inserito e carico di sette colpi, "oleata epronta ali'uso" (testuale dal verbale di sequestro); b) Sette panetti di tritolo per un totale di un chilo e 400 grammi. Vengono inoltre sequestrate - come documentato nel fascicolo di indagine – un depliant pubblicitario con l’ubicazione dei "Mc Donald” di Roma; una piantina dell’aeroporto di Fiumicino "Leonardo da Vinci" in gratuita distribuzione ai passeggeri in transito e arrivo; schede telefoniche, cartoline ricordo, lettere,rubriche telefoniche, libri in lingua araba, un foglio con gli orari della preghiera, un caricabatteria con fili elettrici collegati ai due poli, due lancette di orologio.


Tale Magamet e suo fratello Ahmed, abilmente travestiti, si avvicinano al bersaglio

Durante la perquisizione dell'abitazione, un carabiniere, afferrata un'agenda sul comodino della stanza da letto, la apre per poi mostrare a uno dei due egiziani arrestati una pianta del cimitero militare americano di Nettuno, che è poi una fotocopia dello stradario su cui sono annotati a penna alcuni edifici.

Come nel caso del cianuro, l'operazione è di quelle «buone».Come tale viene affidata alle cronache: "Preparavano un attentato al cimitero di Nettuno";

"Volevano colpire il giorno del Ringraziamento o nel Memorial day". Come nel caso del cianuro,sollecita la massima attenzione americana e il plauso di Washington. E' vero, i nomi dei tre egiziani non dicono alcunché (hanno tutti un regolare permesso di soggiorno e nessun precedente penale), ma nessuno ritiene di dover chiedere conto di come e attraverso quale percorso investigativo i carabinieri siano arrivati a bussare alla loro porta. “Una fonte confidenziale», è l'anodina risposta. E del resto, a distanza di una settimana dall'arresto, ecco piombare sul tavolo delle "evidenze" l'asso che sembra chiudere la partita. Una «cintura esplosiva». Proprio cosi: «Una cintura da kamikaze in grado di nascondere due chili di tritolo». «Ad Anzio - annotano le cronache citando fonti investigative - c'era una base di kamikaze».

E' curioso che questa "prova regina" salti fuori solo sette giorni dopo. Ma, anche in questo caso, nessuno fa troppe domande.Le risposte arriveranno durante l'istruttoria, quando sull'affare sono ormai stati spenti i riflettori.

La «cintura da kamikaze» - si scoprirà - è stata consegnata ai carabinieri dalla proprietaria dell'appartamento di cui gli egiziani erano inquilini. E' lei,l'11 ottobre, a tirarla fuori da un armadio che non era stato aperto. Ed è ancora lei (che ha libero accesso a una "scena del crimine" che nessuno ha sigillato), il 17 dello stesso mese, a raccogliere altri«29 reperti» a carico dei tre. E' indubbiamente una singolare anomalia, che impallidisce di fronte alla circostanza che la«cintura da kamikaze» tale non è. Una perizia disposta dalla Procura di Roma esclude che l'arnese conservi traccia anche soltanto di una particella del tritolo di cui doveva essere imbottita. Verosimilmente, si tratta di una «cintura da pellegrinaggio»,di quelle che migliaia di fedeli indossano durante il viaggio alla Mecca per riporvi documenti e denaro.

C'è di più, l'istruttoria accerta che la proprietaria dell' appartamento, lamentando il mancato pagamento dei canoni di affitto,aveva avuto una lite con i tre inquilini egiziani il 24 settembre 2002, per la quale aveva chiesto l'intervento dei carabinieri. Che, per esplodere, i panetti di tritolo, forati al centro e del tipo in dotazione all'esercito italiano, richiedono un innesco di cui non viene trovata traccia. Impossibile, infatti, farli detonare con la semplice scintilla di un"caricabatteria" o anche semplicemente di una pila. Che la pistola «bene oliata e pronta all'uso» trovata sullo scaldabagno è un residuato bellico, un'arma del 1943, appartenente ad uno stock consegnato alla allora milizia ferroviaria di Verona.

Salta fuori anche che il 4 ottobre 2001, un anno esatto prima dell'operazione, El Gamal, uno dei tre arrestati, era stato perquisito dai carabinieri perché sospettato di appartenere a frange di integralisti islamici. Che la perquisizione aveva dato esito negativo e che lo stesso El Gamal, “incoraggiato”, aveva rifiutato di mettersi a disposizione come “informatore”.

Il processo di Anzio ai tre egiziani è ancora in corso.

La moschea di Colle Oppi, l’ambasciata Usa, il cimitero militare di Nettuno sono tre episodi di un percorso che ha avuto altri inciampi. Il 13 febbraio 2003, a Napoli, vengono scarcerati i 28 pachistani che il 31 gennaio di quello stesso anno erano stati arrestati in un appartamento di Forcella con un chilo e mezzo di tritolo e una foto cerchiata dell’ammiraglio inglese Michael Boyce. «Il quadro indiziario -chiosa il gip che dispone la scarcerazione - è confuso e incerto».Nessuno - aggiunge il magistrato - ha pensato di rilevare le impronte digitali sull'involucro che avvolgeva l'esplosivo. Non sono stati identificati i proprietari dei cellulari intercettati.

Lo stesso avviene a Caltanissetta con i pachistani sorpresi a bordo di una "nave fantasma"segnalata dal Sismi. E a Bologna,dove una abborracciata comitiva di turisti (un cinquantacinquenne padovano e quattro ragazzi marocchini) viene scarcerata dopo essere stata travolta dalla terribile accusa di voler far saltare la basilica di san Petronio. I cinque, nell'estate del 2002, hanno l'innocua quanto pessima idea di riprendere le volte affrescate della basilica che ritraggono il Maometto crocifisso e di accompagnare il proprio stupore con chiose che, catturate da una cimice,convincono i carabinieri e la Procura di Bologna di avere a che fare con un manipolo del Terrore («Fai vedere quanto è alto? - dicono – Questa per te è una religione? Filma bene anche l'affresco...E' il loro Dio con tante donne. Hanno detto che è il figlio della Vergine: tutte balle.. .Vai, andiamo via, seno ci scoprono...»).

Perché tante topiche? Colpa di "fonti" non genuine o comunque interessate ad accreditarsi di cui l'indagine finisce per diventare prigioniera? Avventatezza di segmenti di apparati investigativi che fiutano Al Qaeda come scorciatoia per rapide carriere? Eccessiva compiacenza investigativa di qualche Procura? Oppure oggettiva difficoltà delle indagini, costrette in un ginepraio linguistico dove è più facile l'errore? E dove l'errore,comunque, costa meno, perché nessuno ne chiederà il conto?

(2. continua)

(26 gennaio 2004)

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