Sinistra e Destra
Tradizione, identità, appartenenza, esaurimento, superamento
I parte
 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve è stato diviso in sette parti, più un'introduzione.

All'introduzione

Alla parte successiva




In primo luogo, con la stragrande maggioranza dei cosiddetti intellettuali comunisti e marxisti, ho dato per scontato per almeno un ventennio che la sinistra fosse l’unico luogo storico e culturale possibile non solo per la rivoluzione, ma anche per la razionalità e il progresso dell’umanità. Si trattava di un presupposto di autosufficienza che conteneva un aspetto parzialmente narcisistico, evidente oggi nella crociata antiberlusconiana di personaggi che approvano tutte le guerre imperiali americane, ma poi credono che il problema dei problemi sia il cattivo gusto delle televisioni private o il conflitto di interessi. Questo presupposto di autosufficienza mi spingeva ovviamente a condividere il "tabù dell’impurità" verso chiunque si dichiarasse di destra o di estrema destra. Non mi era chiaro, e non poteva esserlo ai miei coetanei ingannati, che il prolungamento di questa guerra civile simulata serviva soltanto a riprodurre un sistema politico consociativo (ancorché migliore di quello nato dopo il 1992 ad opera del colpo di stato giudiziario di Mani Pulite). In poche parole, per dirla in termini cartesiani, non ero stato ancora investito né dal dubbio metodico né tantomeno dal dubbio iperbolico.

In secondo luogo, ripeto quanto già scritto in molte altre sedi, e cioè che considero gli esiti storici del Sessantotto un episodio della storia dell’individualismo radicale contemporaneo (chi ha sostenuto con migliori argomenti questa tesi è stato il francese Lipovetsky). Il Sessantotto, almeno in Italia e Francia, si caratterizza per la compresenza di una spinta irresistibile alla modernizzazione post-borghese dei costumi, da un lato, e di una falsa coscienza ideologica che mascherava questa modernizzazione post-borghese con l’assunzione di una utopia comunista e libertaria, vissuta peraltro in buona fede in quasi tutti i casi. In quanto tale, il Sessantotto non è dunque la matrice dei partitini rivoluzionari del periodo 1969-1977 e neppure della lotta armata brigatista in Italia. L’ideologia di destra che fa questa equazione è del tutto fuori strada.

In terzo luogo, se si studia l’ideologia italiana dei micropartitini erroneamente detti estremistici degli anni 1969-1977 (Lotta Continua, Potere Operaio, Avanguardia Operaia, partitini marxisti-leninisti, eccetera), si deve sapere che il loro riferimento a Marx ed a Lenin era del tutto formale, astratto ed infondato. Il marxismo era assunto nella forma dell’operaismo italiano, ed il leninismo nella forma del populismo pauperistico. Questo spiega perché vediamo oggi il populista pauperistico Aldo Brandirali nell’area politica di Berlusconi, e l’operaista Adriano Sofri fra gli apologeti del sionismo, delle guerre americane e dell’imperialismo più totale. Non si è dunque trattato di un "tradimento".

Nessun moralismo serve a capire il fenomeno. Questa gente non ha mai avuto in nessun momento il minimo rapporto con Marx o con Lenin, e si tratta allora di avventure della dialettica del tutto specifiche.

In quarto luogo, se si esamina l’ideologia della lotta armata in Italia (sia sul versante Brigate Rosse che in quello Prima Linea) si vede che si tratta semplicemente dell’uso delle armi da fuoco a partire dal precedente demenziale paradigma teorico e politico dell’operaismo e del populismo pauperistico. Marx e Lenin non c’entrano niente. Marx è il teorico del lavoratore collettivo cooperativo associato, e Lenin è il teorico delle larghe alleanze di classe.

Tutto questo era del tutto estraneo agli allucinati pistoleros, che erano mossi da tre presupposti del tutto onirici.

Primo, una concezione paranoica del capitalismo mondiale come meccanismo unitario e pianificato, il cosiddetto SIM, lo Stato Imperialista delle Multinazionali (e questa concezione unitaria e non concorrenziale resta oggi nell’idea di impero senza imperialismo di Toni Negri). Il capitalismo diventa l’organizzazione Spectre di James Bond.

Secondo, una concezione che definirei di operaismo mistico, per cui la classe operaia di fabbrica continua ad essere vista come il gigante buono da svegliare con azioni esemplari, alla faccia delle leniniane alleanze di classe.

Terzo, una concezione che definirei di antifascismo mitico, per cui ci si sentiva eredi ed emuli di Pesce, il partigiano dei GAP, e di Kamo, il rapinatore di banche armeno del tempo di Lenin, e si vedeva un fascista in ogni poliziotto democristiano ed in ogni ingegnere FIAT (questo antifascismo mitico permane ancora oggi in chi continua a vedere Bossi, Berlusconi e Fini dei semplici eredi del fascismo metafisico).

Come si vede questi tre presupposti non hanno nulla a che vedere con il marxismo e con il leninismo. Chi li ignora può ripetere questo luogo comune infondato, ma chi sa chi sono stati e che cosa hanno scritto Marx e Lenin (ed io lo so) non si farà prendere per il naso.

In quinto luogo, devo dire che l’avvento del gorbaciovismo nel 1985 mi fece cadere in una comprensibile schizofrenia, che peraltro condivisi con molti intellettuali marxisti del mondo. Da un lato, sulla scorta di analisti marxisti come Paul Sweezy e Charles Bettelheim, ero convinto da tempo che il socialismo reale fosse diretto da una nuova ed inedita classe sfruttatrice, formatasi con il consolidamento delle burocrazie dispotiche della fusione tra partito e stato (più esattamente, fra partito comunista e stato socialista), e perciò nessuna riforma potesse partire dall’alto in una direzione di emancipazione socialista.

Dall’altro, continuavo pascalianamente a sperare nell’autoriforma della burocrazia, e che il baraccone potesse essere salvato all’ultimo momento, perché mi era già chiaro che il crollo geopolitico del baraccone burocratico avrebbe comportato il sorgere da incubo di un impero americano unilaterale.

Con questi sentimenti schizofrenici affrontai il fenomeno Gorbaciov, e ci misi molto per capire ciò che avrebbe dovuto essere marxianamente chiaro, e cioè che la classe sfruttatrice dei burocrati di stato, resasi conto di non poter continuare con il vecchio meccanismo statalista e pianificato di sfruttamento, si sarebbe infine riciclata come nuova borghesia compradora e speculativa del più solido e collaudato capitalismo occidentale. Il che ovviamente avvenne, insieme con l’affermazione dell’odioso ed ipocrita unilateralismo geopolitico americano. Meno Pascal e più Marx, meno scommessa e più analisi, eccetera, mi avrebbe forse fatto capire meglio le cose. Ma come disse il saggio proverbio, meglio tardi che mai.

  • Sul piano intellettuale, cominciai a capire che la dicotomia di sinistra e destra era del tutto inservibile per mettere a fuoco i problemi di un eventuale rinnovamento del marxismo nel triennio 1991-1993, quando per l’editore Vangelista di Milano scrissi una serie di libri, fra cui una trilogia dedicata ai rapporti rispettivi del marxismo con il nichilismo, l’universalismo e l’individualismo.

    Mano a mano che approfondivo l’analisi, mi rendevo conto che la dicotomia non era solo inservibile, ma addirittura fuorviante, e dava luogo a ciò che nel Seicento Bacone chiamava "idola", cioè pregiudizi devianti.

    Per quanto riguarda il nichilismo moderno, la sinistra ne era stata addirittura il luogo privilegiato con la sua evoluzione dal precedente storicismo progressistico al disincanto post-moderno della fine della storia.

    Per quanto riguarda l’universalismo, la sinistra era stata storicamente il vettore principale del suo scioglimento nei particolarismi non universalistici della classe (operaia) e del partito (socialista e poi comunista). Ma l’universalismo della classe e del partito era stato sempre e solo astratto, aprioristico e formale, mentre nella realtà storica non aveva mai funzionato come tale.

    Per quanto riguarda l’individualismo, infine, la sinistra non aveva ripreso la preziosa indicazione di Marx sulla libera individualità sociale (che per Marx avrebbe dovuto essere la base dell’antropologia comunista, dopo la dipendenza personale precapitalistica e l’indipendenza personale borghese), ma era caduta in forme di identità e di appartenenza di tipo organicistico e tribale (il cosiddetto "popolo di sinistra").

    Insomma, non posso farla lunga per ragioni di spazio. Basti concludere che fu proprio il processo di ripensamento personale a farmi prendere atto del fatto che finché ragionavo in termini di opposizione polare fra sinistra e destra non ne sarei mai venuto fuori.

  • Sul piano teorico avevo già dunque rotto con la dicotomia fino dai primi anni Novanta. Ma restava ancora un radicamento emotivo di appartenenza, duro a morire come tutti i radicamenti identitari ad origine biografica. La rottura emotiva per me risale al marzo 1999, quando i bombardieri americani e dei loro servi europei della NATO (con la lodevole eccezione della Grecia, patria della filosofia) cominciarono a cospargere di uranio radioattivo la Jugoslavia.

    Da vecchio conoscitore dei Balcani, sapevo perfettamente che non c’era in corso nessun genocidio e neppure nessuna pulizia etnica (cioè espulsione etnica di massa da un territorio), ma solo una repressione armata di un movimento armato indipendentista (una situazione comune ad almeno cinquanta paesi al mondo).

    Sapevo anche che il movimento armato indipendentista albanese UCK perseguiva la pulizia etnica dei serbi, mentre Milosevic non perseguiva quella degli albanesi. Sapevo anche che gli americani erano del tutto indifferenti ai cosiddetti "motivi umanitari", e volevano invece un insediamento militare geopolitico nei Balcani (l’odierno Camp Bondsteel).

    Sapevo anche che i cosiddetti colloqui di Rambouillet erano stati una trappola pianificata dalla Albright. Bene, tutto questa era largamente noto, ed invece vidi la sinistra che appoggiava la guerra americana, Veltroni che sfilava in suo appoggio,

    che inneggiava sulle colonne del giornale-partito "La Repubblica",

    che prestava il suo nome alla cosiddetta Operazione Arcobaleno, eccetera. In quel momento in me si ruppe qualcosa. Poi lessi che la rivista "Diorama Letterario" di Tarchi si era invece impegnata contro la guerra con contributi pacati ed equilibrati, ed allora decisi che il "tabù dell’impurità" avrebbe dovuto essere rotto proprio per preservare la mia salute mentale e la mia dignità personale di studioso. E l’ho fatto.





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