Per un bilancio categoriale marxista della storia del comunismo storico novecentesco

(1917-1991)

I parte
 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve, apparso per la prima volta sulla rivista Praxis è stato diviso in dieci parti.

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1. La fine del comunismo storico novecentesco in URSS ed in Europa Orientale nel 1991 non ha dato ancora luogo ad un vero bilancio teorico marxista soddisfacente. Quando parlo di bilancio teorico, ovviamente, non parlo di bilancio storico, perché di bilanci storici ce ne sono già stati moltissimi (e del resto ce ne erano anche prima, alcuni molto buoni e convincenti). So bene che i marxisti confondono sistematicamente le due nozioni distinte di bilancio teorico e di bilancio storico, e le confondono appunto perché sono filosoficamente storicisti, e credono che il bilancio teorico consista nel ripercorrere per l'ennesima volta anno per anno tutto ciò che è successo dal 1917 al 1991 in URSS, dopo il 1945 nei paesi dell'Europa Orientale, dopo il 1949 in Cina, dopo il 1959 a Cuba, eccetera. In questo modo, però, e l'esperienza lo dimostra abbondantemente, non si cava un solo ragno dal buco, perché si riscopre sempre l'acqua calda già precedentemente scoperta, e cioè il fatto che i capitalisti si organizzarono politicamente e militarmente per far fuori il comunismo (e mi stupirei molto se non l'avessero fatto, visto che tutti hanno il diritto alla legittima difesa), e che la cosiddetta costruzione del socialismo non si svolse mai in ambiente pacifico (ma nella storia non ci sono mai ambienti pacifici!), ma si svolse sempre in condizioni di eccezionalità e di emergenza (guerre civili, accerchiamento capitalistico, progetti sterministici di Hitler, guerra fredda dopo il 1945 con costanti minacce atomiche, eccetera).

2. Lo storicismo si manifesta dunque sempre con la ripetizione continua dell'eccezionalismo e dell'emergenzialismo. Questo dà luogo ad una sorta di fastidioso narcisismo storiografico. Alla fine, si scopre sempre solo quello che si sapeva già al principio, e cioè che l'esperienza complessiva del comunismo storico novecentesco dal 1917 al 1991 (ed anche dei paesi che dopo il 1991 si richiamano ancora al comunismo, come Cuba) si è svolta, ed ancora si svolge, in condizioni di accerchiamento, di minaccia militare, di emergenzialismo, eccetera. La sola cosa che brilla per la sua assenza è l'uso di categorie tratte dall'insegnamento di Marx. Questa assenza è talmente scandalosa da dover essere materialisticamente spiegata.

3. Una simile scandalosa assenza ha ovviamente molte ragioni, che si tratta di gerarchizzare correttamente in ordine di importanza (ma non è per niente facile). In primo luogo, si dice sempre che bisognerebbe "dirsi la verità" e non "contarsi delle storie", ma poi queste due ragionevoli indicazioni non vengono mai seguite. La preferenza dell'ideologia illusoria rispetto alla verità è sempre l'infallibile segnale di una situazione di inferiorità e di sudditanza antropologica e sociologica. A non voler sapere la verità è a mio avviso praticamente l'intero "popolo comunista" (o quel poco che ne rimane oggi), sia alla base che al vertice. D'altronde, nessun vertice esisterebbe se una base non lo legittimasse, ed ogni base ha sempre in ultima istanza il vertice che merita. La base non vuol sapere la verità sulla ragione di fondo del fallimento del comunismo storico novecentesco, perché dovrebbe giungere alla conclusione dell'inequivocabile incapacità intermodale della classe operaia di fabbrica, del proletariato, dei poveri, eccetera, e questo nessuna base potrebbe mai sopportarlo. I vertici non vogliono ovviamente conoscere neppure loro questa verità, perché essi trovano la legittimità del loro potere (e degli scandalosi privilegi in termini salariali, pensionistici e soprattutto di status sociale e di visibilità mediatica) esclusivamente sulla base della cosiddetta "rappresentanza", ed è inutile dir loro che per Marx il soggetto rivoluzionario non era la classe operaia e proletaria, ma il lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all'ultimo manovale, alleato con le potenze scientifiche della produzione capitalistica, connotata da Marx con il termine inglese di general intellect. Tutto questo non può essere "rappresentato", e ciò che non può essere rappresentato per un politico di professione letteralmente non esiste, e dunque non è oggetto di analisi.

In secondo luogo (ma questo secondo punto deriva strettamente dal primo), così come i preti non applicano mai a sé stessi il messaggio di Gesù (se no dovrebbero immediatamente detronizzare quei vescovi che si pavoneggiano carichi di gioielli alle dita), nello stesso modo i marxisti non applicano mai a sé stessi il marxismo. Questo principio di esenzione è certamente scandaloso, ma soprattutto grottesco. Tutto questo breve saggio è scritto contro questo grottesco e scandaloso principio di esenzione.

4. Per chiarezza, dividerò la mia esposizione in tre parti. In primo luogo, farò un ritorno storico al 1917 ed alla rivoluzione russa. Niente di nuovo, evidentemente, ma non è mai tempo sprecato ripetere alcune cose ovvie che oggi si tendono a dimenticare con la scusa del cosiddetto "oltrismo", per cui saremmo oltre in sanguinario Novecento, in direzione di un mondo nuovo di no profit, no global e di moltitudini desideranti. In secondo luogo, esaminerò le quattro principali interpretazioni del comunismo storico novecentesco che conosco (l'interpretazione borghese-capitalistica tradizionale, l'interpretazione autoapologetica staliniana, l'interpretazione trotzkista ed infine l'interpretazione maoista). In terzo luogo, e qui sta il cuore di questo contributo, cercherò di applicare alla storia del comunismo storico novecentesco cinque categorie teoriche del marxismo propriamente detto (modo di produzione, formazione economico-sociale, forze produttive, rapporti sociali di produzione, ed infine ideologia).

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