Da Luigi Berlinguer a Letizia Moratti
intellettuali e scuola
seconda parte
 



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Si consiglia anche la lettura dello studio di Roberto Renzetti sul lavoro dei think tank e delle imprese, non solo italiane, che hanno portato alla costruzione delle riforme di Luigi Berlinguer prima e di Letizia Moratti poi.



di Costanzo Preve



Per agevolare la lettura, il testo è stato diviso in otto parti.

All'introduzione

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  • Ho ricordi personali vivissimi degli anni Sessanta. Questo di per sé, ovviamente, non è una garanzia di oggettività e di attendibilità, perché è evidente che il coinvolgimento soggettivo non può essere in nessun modo una prova scientifica di profondità nell’interpretazione (come ben sanno gli esperti di storia orale, coscienti del fatto che i testimoni diretti possono a volte deformare la realtà dei fatti assai più di quanto possano fare degli estranei totali).
    Io sono nato nel 1943, e gli anni Sessanta coincidono con i miei studi universitari, compiuti in larga parte all’estero (in Francia e in Grecia), con la scoperta della mia vocazione filosofica e con la mia vocazione politica comunista e marxista, ed infine con i due eventi del matrimonio e della scelta della professione (i due eventi considerati dal filosofo tedesco Hegel come i due eventi cruciali nel passaggio dall’astrazione intellettuale dell’età giovanile alla concretezza razionale e determinata dell’età adulta). Il lettore mi perdonerà questa piccola parentesi autobiografica, ma essa viene qui introdotta solo per collocare il contesto del mio giudizio sugli anni Sessanta in Italia, da cui inizia logicamente la mia riflessione sulla scuola.
    Per una parte importante della gioventù italiana ed europea gli anni Sessanta sono stati il grande decennio della modernizzazione capitalistica soggettivamente vissuto come il decennio dell’anticamera rivoluzionaria del passaggio al comunismo. Oggi è estremamente difficile spiegare questo ad un giovane, dato il radicale cambiamento della situazione storica che si è avuto nel frattempo. Tuttavia, la comprensione del paradosso dialettico della compresenza conflittuale fra modernizzazione capitalistica ed utopia rivoluzionaria è difficile anche per i membri della generazione del Sessantotto, che tendono a rimuovere nevroticamente questo paradosso, e si dividono facilmente nelle due grandi categorie dei nostalgici e dei rinnegati. Il nostalgico continua a pensare che l’utopia rivoluzionaria non è stata realizzata soltanto per errori politici di tipo soggettivo, e che dunque lo “spirito del Sessantotto” deve essere mantenuto ed eternizzato, sia pure con le modificazioni di tattica politica che questo richiede. Il rinnegato, invece, considera il perseguimento dell’utopia rivoluzionaria uno sciagurato anche se inevitabile equivoco giovanile, cui la saggezza dell’età sostituisce l’adesione attiva ai valori dell’impero americano (il caso di Adriano Sofri è in proposito assolutamente esemplare).

  • Le testimonianze dei nostalgici e dei rinnegati sono ovviamente opposte, ma hanno un segreto elemento in comune. E questo elemento sta proprio nella mancata comprensione del meccanismo teorico che permise la sovrapposizione dell’utopia rivoluzionaria comunista alla sostanza della modernizzazione capitalistica del costume e dei riti sociali e generazionali. Una volta che questo elemento sia stato compreso, il paradosso cessa di essere paradossale, e diventa assolutamente concettualizzabile, e quindi comprensibile, e quindi anche accettabile serenamente senza nostalgia ma anche senza vergogna e ripudio. Si tratta del fatto che la generazione del Sessantotto, che si accostò e praticò per almeno un decennio l’utopia rivoluzionaria comunista, quasi sempre in piccoli gruppi impropriamente definiti “estremisti” (impropriamente, perché invece interpretavano bene non “l’estremo”, ma il “normale” ed il “tipico” dello spirito del tempo), identificò il capitalismo con la borghesia, o più esattamente l’economia capitalistica con il costume familiare e sociale borghese, e pensò che rivoltandosi contro la borghesia e la sua cultura si rivoltava anche e soprattutto contro lo sfruttamento capitalistico. In Italia questo avvenne attraverso l’adozione di massa della variante operaistica del marxismo, in cui la classe operaia era divinizzata, ma anche segretamente disprezzata con il suo essere ridotta a strumento degli astratti furori iconoclastici della rivolta generazionale della piccola borghesia contro l’autoritarismo paterno.
    La classe operaia, per conto suo, in modo parallelo ma assolutamente indipendente, perseguì invece non il progetto operaistico, cioè la comunistizzazione fantasmatica della propria collocazione sociale, ma l’integrazione migliorata nella società capitalistica mai messa seriamente in discussione, e trovò nel sindacato unitario CGIL-CISL-UIL e nel partito PCI (poi PDS ed infine DS) il suo sbocco sociale e politico logico, razionale e coerente.
    Questa concezione antropomorfica del capitalismo, anzi del modo di produzione capitalistico, che è un sistema impersonale e non un soggetto personale trascendentale, avrebbe già potuto essere respinta con gli argomenti di Spinoza e poi di Hegel, filosofi che seppero molto bene al loro tempo respingere le ingenue antropomorfizzazioni della società. Ma questo non avvenne, perché la filosofia è una grande maestra che insegna sempre in un’aula vuota.
    In breve: la scorretta antropomorfizzazione concettuale di un ente per sua natura non antropomorfico, il modo di produzione capitalistico, era lo strumento ideologico più adatto, ed anzi ideale, per poter condurre una rivolta generazionale anti-borghese volta alla modernizzazione ipercapitalistica del costume all’interno della falsa coscienza necessaria (uso qui un concetto di Marx di cui non cesso di ammirare la pregnanza e la pertinenza esplicativa) di stare conducendo una lotta anticapitalistica. Questa lotta in realtà non poteva essere condotta su queste basi anti-borghesi, per il semplice fatto che era il capitalismo stesso nel suo anonimo ed impersonale meccanismo autoriproduttivo a premere per una deborghesizzazione controllata del costume in una direzione post-borghese, in vista di una individualizzazione ulteriore manipolatoria della figura del consumatore, resa finalmente astratta e flessibile, e non più vincolata a costumi borghesi parzialmente contraddittori con quella liberalizzazione nichilistica e totalitaria. Il capitalismo sottomette infatti alla propria riproduzione non solo il proletariato, come è largamente noto, ma anche la borghesia, e non solo la piccola borghesia, come è altrettanto noto, ma la stessa grande borghesia, come è meno noto, ma come già a suo tempo filosofi come Adorno e scrittori come Thomas Mann capirono già molto bene.



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