Centoventi anni dalla morte di Karl Marx (1883-2003)

Un’occasione per una discussione a tutto campo e per una proposta di autoconvocazione

VIII parte

 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve è stato diviso in sette parti, più un'introduzione.

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8. La questione del comunismo cento e venti anni dopo la morte di Marx

Nella tradizione marxista il comunismo è stato sempre evocato in modo volutamente confuso, con la scusa che lo stesso Marx non ne voleva parlare, per non “scrivere ricette per le osterie del futuro”. Al massimo, si evocava o un generico (e demenziale) movimentismo, il famoso “movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”, oppure una prescrizione vuota ed indeterminata, “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, senza peraltro mai chiarire di quali “bisogni” si stesse parlando, al di fuori di quelli detti “naturali” (e cioè riprodursi).

In questa voluta genericità potevano poi regnare i più terribili arbitri burocratici. Lo ripeto, questa genericità non è mai stata un sobrio rifiuto della vecchia abitudine utopistica di prescrivere maniacalmente le forme di convivenza, o quanto meno non è mai stato questo l’aspetto principale, ma è sempre stata la corazza ideologica del dispotismo di ceti politici cinici e nichilisti. Messo “alla fine della storia”, il comunismo è sempre stato l’equivalente ateo dell’aldilà cristiano, senza peraltro avere neppure la scusante di quest’ultimo, e cioè quella di essere rivelato. Chi si appella ad una razionalità, e poi non l’applica a se stesso, è mille volte peggiore di chi non fa neppure finta di farlo, e si appella al figlio di Dio incarnatosi e nato da una vergine ebrea del tempo di Augusto. Costui, almeno, non si nasconde dietro alla cosiddetta “scienza”.

La cosa migliore è invertire l’approccio abituale, e risalire alla genesi storica occidentale della nozione di “comunismo” (non parlo qui di India, Cina, eccetera). Il comunismo è un comunità di compagni, nel senso di persone che spezzano il pane insieme (cum-pane). La matrice storica e simbolica del comunismo occidentale è stata la mensa comune dei primi cristiani, sull’esempio di Gesù e dei suoi apostoli, che cenavano sempre insieme (e non solo nella famosa “ultima cena” leonardesca). La mensa comune era soltanto il momento culminante della “vita comune” (koinovion), che era già un collaudatissimo modello delle culture precedenti, modello che ad esempio l’epicureismo aveva sempre consigliato. Il comunismo è dunque una comunità che vive una vita comune, il cui momento culminante è la mensa comune dei compagni (in greco antico e moderno syn-trofoi, coloro che si nutrono insieme).

Riflettiamo. Il marxismo tradizionale in proposito dice che questo comunismo metteva in comune solo il consumo e non la produzione, per il semplice fatto che nelle condizioni tecnologiche del tempo, in assenza della produzione meccanizzata di massa moderna, ed in presenza della piccola produzione artigianale ed agricola, il comunismo era pensabile e praticabile solo come comunismo del consumo, e non come comunismo della produzione.

Giustissimo, ma anche insufficiente, se riflettiamo sul fatto che il comunismo continua ad essere simbolicamente connotato come società amicale di compagni e non di colleghi, cioè di persone con cui si mangia in comune, e non con cui si lavora in comune. Questo dettaglio etimologico rivelatore, se sappiamo leggerlo spregiudicatamente, ci rivela che di per sé la semplice comunità produttiva di lavoro non è ritenuta sufficiente per fondare un nuovo legame sociale, ma che ci vuole proprio il rimando all’antica vita comune, che trovava nell’amicizia e nella fraternità comune la solida base della stabile aggregazione. Vorrei che il lettore riflettesse bene su questa questione del comunismo come “mensa comune”, perché da essa trarrò subito spunto per due ordini di osservazioni.

In primo luogo, questi primi comunisti non mettevano in comune tutto, ma solo il momento comunitario della mensa comune. Molto sobrio, molto intelligente e molto giusto. Al di fuori della mensa comune c’erano poi altre sfere della vita che non si mettevano affatto in comune, come ad esempio la vita familiare. Nessuna sciocchezza sull’abolizione della famiglia, irrefrenabile desiderio della cultura radicale (nel senso di Pannella-Bonino, non di Marx). Nessun mito della trasparenza assoluta dei comportamenti, sogno totalitario del controllo totale fatto passare per fraterna comunità organica. La mensa comune permette la vita di tutti, ma si ferma prima di quell’utopia negativa dell’irreggimentazione comune che resterà sempre il principale (e giustificato) argomento contro il comunismo.

In secondo luogo, la mensa comune (il simposio greco, il convito latino) presuppone se non proprio la fraternità, almeno l’amicizia (filia) dei partecipanti. Il comunismo, infatti, può essere definito secondo due coordinate fondamentali: una società di amici, che si dicono (o cercano di dirsi) la verità, una verità che ovviamente non può essere una Cosa eterna staccata dal mondo ed autosufficiente come il Dio di Aristotele e l’Essere di Parmenide (e di Severino). Ma chiunque abbia frequentato nel Novecento i gruppi che si dicono “comunisti” può testimoniare che vi regna sempre la massima potenziale inimicizia ed antipatia reciproca, non solo fra i ridicoli capi-politicanti divisi da antagonismi elettorali ma anche fra i membri subalterni delle cordate concorrenti. Questa litigiosità ed inimicizia dei comunisti non è mai casuale, ma è un segnale di un deficit antropologico specifico, che rimanda a sua volta alla fragilità della propria teoria di riferimento, una mescolanza instabile di pauperismo e di sindacalismo, su cui non è possibile costruire nessuna egemonia.




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