Il maoismo

II parte
 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve, apparso per la prima volta sulla rivista Praxis è stato diviso in nove parti.

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3. Per chi prende il marxismo sul serio parlare di Mao significa parlare della Cina, e parlare del modo di produzione asiatico. Se non si fa questa mossa teorica iniziale a mio avviso non si va poi da nessuna parte.

4. Nel marxismo-leninismo codificato da Stalin nel 1938 l'intera umanità è unificata in un unico flusso storico sintetizzato in cinque stadi successivi, il primo iniziale e l'ultimo finale. Si tratta della successione di comunismo primitivo - schiavismo - feudalesimo - capitalismo ed infine comunismo. Anche se Marx ne sembra apparentemente l'ispiratore, in realtà si tratta di una cosa ben diversa, perché Marx aveva bensì proposto il modello scientifico della genesi, dello sviluppo e del tramonto dei modi di produzione sociali, ma non li aveva volutamente inseriti in una seria storicistica di successione predeterminata ed a finalità precostituita (anche se alcune sue formulazioni inesatte possono legittimare filologicamente una simile interpretazione deterministica). Ma ciò che conta è che Marx aveva esplicitamente parlato di modo di produzione asiatico, rifiutandosi di ridurlo ad una sorta di schiavismo e di feudalesimo dai tratti esotici. Stalin abolisce questa categoria, per ragioni che Rudolph Bahro chiarirà bene (e che riprenderò nel prossimo paragrafo), e gli stessi marxisti cinesi staliniani vengono obbligati a trovare nel passato della storia cinese degli schiavismi e dei feudalesimi che sono certo esistiti, ma non sono mai divenuti dominanti, e soprattutto non hanno mai avuto il ruolo centrale dello schiavismo antico greco-romano e del feudalesimo occidentale europeo.

Il modo di produzione asiatico, di cui Marx parla a lungo (cfr. K. Marx - F. Engels, India Cina Russia, Il Saggiatore, Milano 1960), comporta da un lato la proprietà dello stato dispotico sulla terra, e dall'altro l'autonomia produttiva reale delle collettività contadine subalterne. Nulla a che vedere, come si vede, con lo schiavismo antico greco-romano e con il feudalesimo occidentale europeo, due modelli storici che sono serviti a Marx per elaborare le due tipologie rispettive di modo di produzione schiavistico e feudale.

La proprietà esclusiva dello stato dispotico sulla terra, unita con l'autonomia produttiva reale delle collettività prevalentemente contadine, configura un modello sociale, economico, politico e culturale assolutamente non-occidentale (nel bene e nel male, questa è un'altra questione da discutere a parte), che in forme diverse e specifiche può essere riscontrato in Cina, in India, presso gli Incas del Perù, eccetera. Questo modello, detto asiatico, non deve però essere confuso con due altri modelli anch'essi non occidentali, ma qualitativamente diversi, come quello antico-orientale (antico Egitto, antica Mesopotamia, antica Cine ed India delle prime civiltà fluviali ed idrauliche, eccetera) e come quello africano, basato sul ruolo produttivo e strutturale dei linguaggi delle famiglie allargate e della divisione del lavoro sociale fra sessi e generazioni che si organizzano entrambi autonomamente in senso culturale e politico.

La Cina è stato il massimo modello storico di modo di produzione asiatico. E allora chi vuole parlare di Mao come semplice ammiratore di Stalin e nemico di Krusciov deve essere invitato, educatamente ma anche risolutamente, a prendersi un supplemento di studio.

5. In Italia, a parte alcune rare eccezioni (cfr. U. Melotti, Marx e il terzo mondo. Per uno schema multilineare dello sviluppo storico, Il Saggiatore, Milano 1972), si è sempre parlato pochissimo di questo cruciale problema. Una ennesima vergogna provincialistica, coperta da discussioni teologiche sulla differenza fra contraddizioni dialettiche ed opposizioni reali e sulla trasformazione dei valori in prezzi di produzione. Non nego che queste due problematiche abbiano senso, so bene che Lucio Colletti e Piero Sraffa sono esistiti, ma sinceramente la questione del carattere multilineare e non unilineare della storia universale mi sembra mille volte più importante per capire qualcosa del mondo in cui viviamo (e dico solo mille e non diecimila perché invecchiando sono diventato molto più moderato).

In un ambiente meno provinciale la discussione sul modo di produzione asiatico è stata vivace, anche se influenzata da letture ideologiche. Cito qui soltanto per brevità le posizioni rispettive di Karl Wittfogel, Samir Amin e Rudolph Bahro. Dopo averne preso conoscenza, anche la discussione su Mao potrà continuare su basi molto più informate e molto più sane.

Karl Wittfogel (cfr. Il dispotismo orientale, 2 voll., Vallecchi, Firenze 1968, edizione originale americana 1957), comunista tedesco poi divenuto un anticomunista politico, ha elaborato un importante modello, a mio avviso fondato, in cui lega il dispotismo pooutico alla necessità di organizzare lavori collettivi di carattere idraulico per la regolazione di grandi fiumi (Nilo, Tigri ed Eufrate, Indo, Fiume Azzurro in Cina, eccetera). Da questo primitivo insediamento "idraulico" dello stato nasce poi un processo di successiva autonomizzazione produttiva ed organizzativa delle comunità contadine, mano a mano che si allontanano dai bacini fluviali colonizzando sempre nuove terre. È possibile che Wittfogel sopravvaluti l'importanza del fattore idraulico, ma a mio parere coglie comunque un punto centrale nel segnalare la relativa eccezionalità, e quindi particolarità e non universalità a priori, del modello occidentale.

Samir Amin (cfr. Lo sviluppo ineguale, Einaudi, Torino 1977, edizione originale francese 1973) propone invece un modello di "modo di produzione tributario", in cui insiste anche lui sul fatto che il carattere "esterno", e quindi solo tributario, fiscale e militare, del potere politico nelle formazioni economico-sociali non occidentali, impedisce nel modo più assoluto ogni operazione di "omogeneizzazione occidentalistica" della storia universale, che fa diventare la Cina e l'India un "caso speciale" dell'Occidente. Una simile corretta impostazione si può trovare in altri due autori anglosassoni, come Perry Anderson (cfr. Dall'antichità al feudalesimo, Mondadori, Milano 1978 e Lo stato assoluto, Mondadori, Milano 1980, entrambi di edizione originale inglese 1974) ed infine Hosea Jaffe (cfr. Stagnazione e sviluppo economico. Modi di produzione, nazioni, classi, Jaca Book, Milano 1985).

In generale mi astengo dall'appesantire i miei testi di discussione con bibliografie. Ma in questo caso il lettore avrà notato che ho dovuto citare quattro autori, e tutti e quattro non italiani. Eppure si tratta, per i marxisti, della questione incondizionatamente più importante di tutte, e cioè del problema dello sviluppo multilineare della storia universale, unico antidoto all'occidentalismo ed alla presunzione metropolitana. Lo ripeto in modo tristemente provocatorio: solo un ambiente culturale provinciale, che ha sostituito il motto di Marx con quello di Fred Buscaglione "Tu vuoi far l'americano" può prendere sul serio l'Impero di Toni Negri. Pensare che il mondo sia oggi unificato in "moltitudini desideranti" rappresenta la versione comica di una tragedia, e cioè il fallimento irreversibile del progetto universalistico del comunismo storico novecentesco.

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