Il testamento filosofico di Lukács

III parte
 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve, apparso per la prima volta sulla rivista Praxis è stato diviso in sei parti.

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10. Un breve inciso su Karl Korsch (1881-1961). Si tratta di un pensatore marxista tedesco di prima grandezza, che fu tradotto e discusso anche in Italia negli anni Sessanta e Settanta, e che è oggi pressoché dimenticato al di fuori della ristrettissima cerchia di studiosi del marxismo. Korsch si fece espellere dal partito comunista tedesco alla metà degli Anni Venti per questioni sostanzialmente tattiche, ed una volta espulso aderì (prima in Germania, e poi negli Stati Uniti) a piccolissimi gruppi minoritari di comunismo consiliare (Anton Pannekoek, Paul Mattick, eccetera). In un certo senso, Korsch può essere considerato un precursore dell'operaismo degli Anni Sessanta, perché individuò il fondamento teorico principale del marxismo nella capacità storica reale della classe operaia concreta di attuare una lotta di classe vincente contro il capitalismo (e contro lo stalinismo, assimilato ad un capitalismo di stato). Un'incapacità storicamente protratta di questa classe di fronte alle tre varianti del roosveltismo, dello hitlerismo e dello stalinismo (Korsch negli Stati Untiti degli Anni Trenta scriveva su rivistine che sostenevano la tesi delle tre varianti) avrebbe voluto dire secondo Korsch che la storia reale aveva falsificato l'ipotesi marxiana sulla natura rivoluzionaria della classe operaia. Si tratta di una strana variante di popperismo marxista, non a caso visto in modo apertamente neopositivistico come una scienza falsificabile. Con questo non intendo affatto disprezzare Korsch, che era a modo suo un grande, e non aveva dunque nulla in comune con i sociologi confusionari filosoficamente nichilisti dell'operaismo italiano. Dopo il 1945, da Korsch stabilito come data di scadenza del presupposto rivoluzionario marxista, e verificata l'adesione massiccia della classe operaia al keynesismo ad Ovest ed allo stalinismo ad Est, Korsch smise di dichiararsi marxista. In tutto questo io vedo, in un certo senso, una forma di onestà intellettuale e nello stesso tempo l'esito fatale di tutti gli operaismi radicali, che legano inscindibilmente l'attività della classe operaia di fabbrica con la possibilità di superamento rivoluzionario del capitalismo. Ma è proprio il principio popperiano di falsificabilità che non funziona, tanto di più se applicato alla storia. Non si vede infatti perché la data di scadenza debba essere il 1945, e non il 1968, 1991, il 2014, il 2127, eccetera. Ed infatti i credenti neotrotzkisti, neobordighisti e neostalinisti nella centralità della classe operaia di fabbrica continuano a rinviare la data di scadenza, con l'argomento statistico dell'aumento numerico quantitativo degli operai salariati, effettivo se il parametro è ricavato a livello mondiale, e non a livello di paesi capitalistici avanzati, in cui il settore terziario effettivamente porta ad una riduzione numerica degli operai di fabbrica. Dopo la dissoluzione grottesca ed implosiva del comunismo storico novecentesco avvenuta un decennio fa ci appare ormai chiaro che la scelta "interna" di Lukács e quella "esterna" di Korsch sono state storicamente equivalenti, e che la storia ha risolto per conto suo il contenzioso che appassionò le passate generazioni. Caratterialmente, io preferisco personalmente la scelta di Korsch. Ma mi sforzo anche di capire la scelta di Lukács, e di comprenderla storicamente. 11. La scelta personale di internità al movimento comunista maggioritario e storicamente dominante è ovviamente legata alla valutazione di riformabilità di questo stesso movimento. Ci si sta dentro perché si pensa di poter contare di più che standone fuori. Lukács è un esempio chiarissimo di questo atteggiamento. In realtà, si tratta di un comportamento illusorio: se il destinatario è irriformabile ogni innovazione teorica è irricevibile, e viene lasciata cadere. Devastato dallo stalinismo, il comunismo storico novecentesco si dimostrò irriformabile. In URSS si dissolse, in Cina si riformò in direzione apertamente capitalistica, in Italia fornì i quadri mercenari di gestione per la riconversione economica dettata dalla globalizzazione. Alla base di questa illusione di riformabilità ci stanno a mio avviso tre elementi interconnessi: una concezione ideologica della irreversibilità della costruzione del socialismo, una sottovalutazione delle capacità innovative del capitalismo, una sottovalutazione della crisi strutturale di egemonia e consenso del socialismo reale. In primo luogo, Lukács faceva parte di quella generazione di "fondatori" del 1917 che riteneva impensabile una restaurazione del capitalismo dopo che erano già state messe le basi economiche e politiche dell'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e della pianificazione della produzione stessa. Persino quelli come lui, che polemizzavano teoricamente contro il determinismo, il meccanicismo e la teoria degli stadi, conservavano un robusto presupposto della irreversibilità del socialismo, dovuto all'ideologia del progresso storico di matrice illuministica. Non era così. In secondo luogo, dietro la sottovalutazione delle capacità del capitalismo di rilanciarsi globalmente e con successo non ci stava tanto l'esperienza del 1929, che aveva fatto toccare con mano la possibilità di una crisi generale del sistema capitalistico, e neppure la permanenza di teorie economiche del crollo del capitalismo (da Lukács mai veramente condivise, se non nella sua giovanile fase luxemburghiana), quanto il pervicace presupposto che associava il capitalismo all'idea di conservazione, ed il socialismo all'idea di progresso. Sostenitori teorici del capitalismo come l'economista Schumpeter pensavano a quei tempi che il capitalismo fosse stagnante ed incapace di innovazione. Non possiamo certo immaginare che Lukács fosse estraneo a queste idee correnti nel suo tempo. In terzo luogo, mancò a Lukács la percezione esatta della debolezza riproduttiva delle società del socialismo reale. In mancanza di un consenso maggioritario, si pensava che in fondo un consenso passivo fosse sufficiente. Anche in Occidente, in fondo, il consenso politico al capitalismo è molto più passivo che attivo, eppure la società si riproduce lo stesso. Ma le società del socialismo reale avevano una fragile legittimazione ideologica (il marxismo-leninismo) e la teleologia (la costruzione del socialismo), ed il consenso passivo nascondeva male l'anomia e la frammentazione sociale e politica. Inoltre, vi era ancora la strutturazione classista della società, che sfuggiva a Lukács, che riteneva le disuguaglianze frutto soprattutto di ritardi, malgoverni soggettivi, corruzione eliminabile. In realtà il dissenso sociale non era tanto dovuto al cattivo esempio dei consumi di prestigio dei burocrati, minimi rispetto ai consumi abituali delle oligarchie economiche occidentali, quanto alla totale distruzione dei principi minimi di responsabilità e di merito lavorativo in favore di una determinazione politica della carriera. Uomo della vecchia generazione, Lukács inserì tutte queste note negative nel gran registro della riformabilità. La sorte gli fu benigna, e lo fece morire nel 1971, venti anni prima della dissoluzione gorbacioviana dell'eredità della rivoluzione del 1917. 12. Abbiamo così esaurito i necessari preliminari di ordine storico, ideologico e politico e possiamo rimettere a fuoco la discussione sulla tesi di fondo di questo articolo, il fatto cioè che Lukács è stato il più grande filosofo marxista del novecento. Un brevissimo riferimento ulteriore a Marx, Engels e Lenin sarà però indubbiamente utile. 13. Della filosofia di Marx si può dire quello che il poeta Metastasio disse dell'araba fenice: che ci sia, ciascuno lo dice/ ove sia, nessun lo sa. Il fatto è che Marx non ha mai sistematizzato, esplicitato, coerentizzato una sua propria specifica filosofia, ed essa può essere solo ricavata da operazioni di interpretazione soggettiva, inevitabilmente incerte e fatalmente "plurali". Io non condivido l'opinione di Althusser, per cui si può fare una "lettura sintomale" di Marx, ed in questo modo ricavarci una filosofia esplicita, perché ogni lettura sintomale è inevitabilmente il luogo dell'arbitrio e dell'abbandono di ogni base filologica. Se qualcuno mi chiedesse qual è a mio avviso, sulla base di quasi quarant'anni di studi marxiani, la filosofia di Marx, risponderei così: un'antropologia filosofica iscritta in una filosofia della storia. Più esattamente, un'antropologia filosofica della libera individualità sociale iscritta in una filosofia dialettica ed emancipativa della storia. Non un rovesciamento di Hegel, ma una concretizzazione comunista di Hegel. Il riferimento filologico incontestabile sta a mio avviso in quella famosa pagina dei Grundrisse, in cui Marx individuava il principio di intelleggibilità filosofica del processo storico nel passaggio dalla dipendenza personale umana alla libera individualità attraverso il passaggio intermedio dell'indipendenza personale borghese-capitalistica. Qui siamo su di un saldo terreno filologico. Ma è comunque ovvio che se Marx si limitò ad un cenno in un inedito, e non lo sviluppò, è perché non credeva che fosse necessario farlo, e che ci si potesse fondare molto meglio sul carattere necessario delle tendenze presenti nella dinamica del modo di produzione capitalistico.

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