L'islamofobia in Occidente
 

di Annamaria Rivera, docente di etnologia all'università di Bari

Fonte: Guerre & Pace, ottobre/novembre 2003



Ogni approccio che voglia contrastare l'islamofobia deve muovere dal compito di pluralizzare concettualmente l'islam mostrando i modi molteplici in cui la tradizione musulmana è vissuta e agìta nei diversi contesti locali

Se il termine "islamofobia" è relativamente nuovo, il fenomeno che esso denota non è inedito ma costituisce una tendenza latente che i sanguinosi attentati dell'11 settembre hanno contribuito a riattivare in forme e gradi, essi sì, inediti (1).

UNA RECRUDESCENZA D'ETEROFOBIA

L'antagonismo o il rifiuto verso l'islam o ciò che ad esso è assimilato è infatti uno degli elementi costitutivi della stessa identità occidentale, che spesso si è definita per antitesi con un Oriente e un islam rappresentati come blocchi monolitici connotati da arretratezza, oscurantismo e fanatismo. Diciamo "spesso" perché altrettanto mistificante sarebbe sottacere la lunga storia di rapporti, di contatti pacifici, di scambi reciproci fra i due mondi; e fallace dimenticare il debito della cosiddetta civiltà occidentale verso la cultura arabo-musulmana, cui deve buona parte delle basi filosofico-scientifiche della propria modernità. Gli eventi dell'11 settembre e ciò che ne è conseguito - la dottrina della guerra preventiva e infinita contro il "terrorismo islamista" e gli "Stati-canaglia" - hanno, certo, riattivato, non solo negli Stati uniti ma anche in Europa, una certa diffusione di sentimenti e produzioni discorsive anti-islamici, e anche di atti violenti contro persone, simboli e luoghi dell'islam "trapiantato" (2).

Ma, particolarmente in Italia, tali umori e atteggiamenti erano latenti - e talvolta perfino manifesti - ben prima. La peculiarità del nostro paese, infatti, mi sembra risieda nella sua incapacità di fare i conti con il passato coloniale, dimenticato o rimosso se non nel retaggio inerte e inconsapevole di stereotipi e cliché razzialisti; nel suo carattere che, malgrado le immigrazioni e una pluralità culturale di fatto, permane sostanzialmente biancocentrico e monoculturale, "visibile persino nel paesaggio, segnato ovunque da chiese, pievi, tabernacoli" (3); infine, nella presenza nel governo, e con incarichi istituzionali prestigiosi, del maggiore "imprenditore politico" dell'eterofobia e della sua variante islamofobica.

Simmetrica a questo fenomeno è la recrudescenza in Europa (e in Francia in particolare) della giudeofobia e dell'antiebraismo (4): una tendenza anch'essa, e ancora di più, latente e periodicamente riemergente, che oggi come in occasione di altre aspre congiunture internazionali torna a manifestarsi nella forma non solo di enunciati e discorsi, ma anche di attentati contro sinagoghe e cimiteri ebraici, ingiurie e aggressioni personali. Tanto il primo quanto il secondo fenomeno - che condividono alcuni meccanismi concettuali, verbali e linguistici - sono il frutto, fra le altre cose, di una retorica che ricorre e al tempo stesso alimenta una polarizzazione ideologica sempre più accentuata. Alla quale non poco hanno contribuito le dichiarazioni pubbliche di leader politici nazionali e internazionali, le prese di posizione di intellettuali e opinion leaders anche di area liberaldemocratica, una pubblicistica spesso d'infimo livello nonché numerosi mezzi di comunicazione con i loro pericolosi slittamenti semantici: per esempio, quelli che fanno del conflitto mediorientale e della guerra preventiva una lotta "fra civiltà" o addirittura "fra razze", attribuendo a tutti gli ebrei o a tutti i musulmani, compresi quelli della diaspora, responsabilità che sono della strategia imperiale Usa, di ben determinati governi, dell'islamismo politico armato.

LA TEORIA DELLO SCONTRO DI CIVILTÀ

Di questa retorica fondata sul dispositivo della polarizzazione, il clash of civilizations di Samuel T. Huntington (5) è l'illustrazione più emblematica e più mediatizzata. Il politologo di Harvard, espressione di quel pensiero ultraconservatore che ha contribuito a elaborare le legittimazioni scientifiche della nuova strategia statunitense, propone, attraverso nozioni totalizzanti come quella di civiltà (6), una configurazione dei rapporti di forza internazionali basata su rigide linee di frattura cultural-religiose.

Nella "cattiva antropologia" di Huntington, le "civiltà" sono viste come universi compatti, autonomi, irriducibili, potenzialmente o effettivamente ostili l'uno all'altro; i rapporti del cosiddetto Occidente con altre aree, paesi e culture sono rappresentati nei termini dell'opposizione fra the West and the Rest. Secondo la profezia di Huntington (una tipica profezia che si autoalimenta), la scena internazionale sarà nel futuro prossimo dominata dai conflitti fra otto "civiltà": occidentale, confuciana, giapponese, islamica, hindu, slavo-ortodossa, latino-americana, nonché la "potenziale" civiltà africana. E la minaccia mortale alla "civiltà occidentale", il cui baluardo è costituito dagli Stati uniti, sarebbe rappresentata dal rischio della coalizione fra le due "civiltà" più pericolose, la confuciana e l'islamica.

Dunque, in tale configurazione, la "civiltà islamica" occupa un posto assolutamente centrale, essendo fra l'altro rappresentata come un blocco monolitico caratterizzato da "frontiere sanguinose" per un'atavica e intrinseca propensione a esaltare le virtù guerresche; come un blocco il cui cemento è costituito fondamentalmente da "fedeltà tribali" che si coniugano con la fedeltà alla umma. In definitiva, alla "civiltà occidentale", rappresentata anch'essa come un'entità unitaria, cementata dalle comuni radici cristiane e la cui compattezza dipenderebbe in sostanza dalla subordinazione dell'Europa ai disegni statunitensi, spetterebbe addomesticare e ridurre a propria ragione the Rest.

Il libro di Huntington ha conosciuto un'eco larghissima, al punto che il clash of civilizations fa parte ormai del repertorio dei luoghi comuni propalati dai media e delle chiacchiere da salotti perfino còlti. Il suo successo dipende anche dal fatto che il paradigma di Huntington muove dal senso comune "e lo trasforma in una verità universale volta a giustificare, in effetti, una struttura internazionale di apartheid politico e culturale" (7). Nondimeno l'opera di Huntington è a suo modo innovativa in quanto sposta l'attenzione dalle relazioni fra gli stati alla dimensione culturale e religiosa delle contraddizioni e dei conflitti. Ma questa innovazione, interpretabile come riflesso della fine del mondo bipolare, della moltiplicazione di conflitti altri da quelli fra stati e del carattere asimmetrico, non-dichiarato, "umanitario" o "democratico" delle guerre postmoderne, ignora il carattere storico, processuale, fluido e artefatto delle identità e delle culture, ed essenzializza e naturalizza le "civiltà" facendone delle fortezze simboliche; in tal modo conferma il suo legame con l'ideologia che ha ispirato la dottrina della guerra permanente e preventiva (8).

LA VARIANTE LEGHISTA

L'analisi del teorema di Huntington è utile non solo a comprendere il pensiero che produce le legittimazioni scientifiche delle guerre postmoderne, ma anche a mostrare di quali riferimenti còlti, volgarizzati e semplificati, si nutra l'immaginario veicolato dagli imprenditori mediatici e politici dell'islamofobia e più in generale dai propalatori di visioni manichee ed essenzialiste, alla base di ogni pensiero e ideologia intolleranti. In tal senso, appaiono simmetrici e si alimentano mutualmente il fondamentalismo occidentale, come è stato definito, che è alla base della dottrina e della pratica della guerra preventiva e infinita, e l'ideologia che è alla base del radicalismo islamico armato. Entrambi muovono da una Weltanschauung che ha come cardine l'idea dell'Altro come nemicità assoluta.

Tale ideologia è alla base del principale "imprenditore politico" italiano della xenofobia e dell'islamofobia, vale a dire la Lega Nord. Nell'immaginario leghista, l'Altro assoluto è rappresentato dal Musulmano il quale a sua volta assume caratteri quasi abominevoli quando s'incarna nell'immigrato. Né si tratta di un frutto dell'11 settembre: fin dal momento della sua comparsa sulla scena pubblica, la Lega Nord ha collocato al centro della propria costruzione identitaria e della propaganda politica l'attacco e il discredito di tutto ciò che ha a che fare con il mondo musulmano, così che l'antislamismo può essere considerato, insieme all'ostilità verso i migranti e l'immigrazione, uno dei suoi pilastri ideologici.

Nel 1993 il massimo esponente del Carroccio dichiarava: "La civiltà da una parte, i barbari dall'altra. L'Occidente civile e l'islamismo. Se proprio devo dirla tutta […], io la vedo così". Sbaglierebbe dunque chi ritenesse che tale propensione leghista sia solo funzionale alla competizione sul mercato elettorale. È vero che il nuovo Nemico è oggi simbolicamente più efficace e politicamente più spendibile dei precedenti; e che alimentando "l'antislamismo latente nella società italiana il Carroccio presidia una precisa nicchia del mercato elettorale" (9).

Ma la linea antimusulmana della Lega non è principalmente o solo una scelta strumentale, bensì un elemento strutturale del suo impianto ideologico: nell'inquietante "scivolamento" della Lega Nord verso una simbologia, un lessico, una Weltanschauung che presentano tratti comuni con il neonazismo - si pensi alle locuzioni leghiste "razza padana" e "inquinamento da stranieri" nonché alla comparsa, nella toponomastica "spontanea" ispirata dalla Lega, di scritte quali "Comune deislamizzato"- è possibile leggere non una deriva ma l'esito conseguente delle sue premesse ideologiche e culturali.

Nel quadro di tale scivolamento, la figura del Musulmano, soprattutto se immigrato e povero, nell'immaginario e nelle strategie discorsive leghiste va sempre più assumendo tratti comparabili con quelli dell'Ebreo dell'antisemitismo storico. Chi, anche a sinistra, sostiene che il leghismo non sarebbe altro che un epifenomeno, l'espressione più "colorita" e superficiale, dunque più innocua della xenofobia e del razzismo, mostra di non cogliere la valenza performativa di ogni discorso razzista, e dunque anche di quello leghista. Il leghismo ha rotto l'interdetto che dalla fine della Seconda guerra mondiale aveva reso impronunciabili il lessico e il linguaggio della supremazia razziale.

In secondo luogo, la martellante propaganda antimusulmana della Lega Nord legittima, sistematizza e amplifica un sentimento e un immaginario condivisi da una parte non esigua dell'opinione pubblica italiana, banalizzando e rendendo in qualche misura digeribile lo stesso veleno dell'islamofobia. Questa variante locale dello "scontro di civiltà" ha dunque uno specifico effetto performativo - in tal senso è propriamente una profezia che si autoavvera - ma al tempo stesso è rivelatrice di umori profondi che albergano nella società italiana.

Dei quali un'ulteriore spia è lo straordinario successo (un milione di copie vendute) conseguito del volgare e profondamente incolto libello di Oriana Fallaci contro i "fottuti figli di Allah". Nel caso italiano, non credo si possa dire che l'immagine totalizzante di un islam immobile e compatto, aggressivo e minaccioso, fanatico e premoderno, violento e conquistatore sia il frutto peculiare dell'orientalismo, per meglio dire della popolarizzazione di topoi e temi elaborati nell'ambito della letteratura orientalista.

Mi sembra piuttosto che abbia a che fare con un immaginario e un'ideologia radicati, come già detto, nella rimozione del passato coloniale - e per certi versi anche di quello fascista; nella conseguente permanenza di cliché e stereotipi ereditati dall'uno e l'altro nonché nel pervicace rifiuto di riconoscere la realtà della pluralità culturale, rifiuto spiegabile anche, certo, con una storia delle immigrazioni tutto sommato recente e con il fatto che la cultura cattolica sia stata l'unico elemento unificante della debolissima identità nazionale. Tutto questo si traduce in una diffusa ignoranza, questa sì peculiare, circa i mondi religiosi e le realtà culturali diversi dai propri, che intellettuali e imprenditori politici della xenofobia contribuiscono a rafforzare.

LO STEREOTIPO DELL'UNICO ISLAM

A questo proposito è opportuno osservare che il rozzo culturalismo della Lega Nord è indizio di un'attitudine ben più diffusa, anche in circoli còlti. La gran parte delle produzioni discorsive intorno all'"islam", infatti, sono connotate dalla costante confusione fra società, religione e cultura, che trasforma le eventuali correlazioni fra l'una e l'altra in determinazioni (10).

Ogni immigrato proveniente da un paese a maggioranza musulmana è visto non già nelle sue pratiche sociali concrete ma, anche se non credente, come interamente determinato dalla religione maggioritaria del paese di provenienza; la religione musulmana è a sua volta rappresentata come un'unica cultura e l'islam diviene criterio esplicativo per eccellenza: dalla condizione della donna al terrorismo, dalla mancanza di democrazia ai conflitti internazionali, tutto viene ricondotto alla religione o cultura islamica.

"L'Islam, come osserva Olivier Roy, viene così percepito come un sistema chiuso, che si spiegherebbe a partire dalla sua stessa storia, da quello che dice o direbbe il Corano o da quello che succede in Medio Oriente". In tal modo, soggiunge Roy, gli avvenimenti "in cui sono implicati dei musulmani vengono riferiti all'Islam: cosa dice l'Islam degli attentati suicidi […], cosa dice il Corano del jihad […], cosa dice l'Islam della donna?" (11).

Curiosamente tale propensione, verificabile nella maggior parte dei paesi europei, a etnicizzare "i musulmani" attribuendo a tutti i migranti provenienti da paesi a maggioranza musulmana un'unica identità culturale detta "islamica", indipendente dalle loro effettive credenze e pratiche religiose e sociali, è analoga a quella dei neofondamentalisti e degli islamisti, che tendono per l'appunto ad affermare l'idea totalitaria di un Islam che trascenderebbe le realtà storiche, sociali, culturali e l'indistinzione fra la dimensione politica e la dimensione religiosa. È per le ragioni qui sinteticamente esposte che, a mio avviso, ogni approccio che voglia contrastare l'islamofobia diffusa dovrebbe muovere dal compito preliminare di pluralizzare concettualmente l'islam, storicizzarlo, collocarlo nel quadro della modernità, sottolinearne gli elementi di complessità, per mostrare i modi molteplici in cui la tradizione musulmana è vissuta e agita a seconda dei contesti locali (12).

Solo così è possibile illuminare i processi attraverso i quali i simboli religiosi vengono incessantemente reinterpretati alla luce delle diverse condizioni locali e situazioni culturali, e ciò particolarmente nelle società di arrivo dei migranti. Applicando una tale logica situazionale si può pervenire a comprendere che in realtà non esiste un islam ma degli islam. In tal modo è possibile anche smontare l'idea assai corrente, asimmetrica e a senso unico, che alimenta pregiudizio, intolleranza e razzismo: quella secondo cui gli stranieri immigrati provenienti da paesi a maggioranza musulmana sarebbero interamente e rigidamente determinati dalla loro religione, che a sua volta è concepita, concettualmente ed effettivamente, al pari di uno stigma, di un marchio negativo.


NOTE (1) Sull'islamofobia e, più in generale, l'eterofobia in Italia vedi, fra l'altro, A. Rivera, 2003, Estranei e nemici. Discriminazione e violenza razzista in Italia, con un Inventario dell'intolleranza di P. Andrisani, Roma, DeriveApprodi.

(2) La lotta al "terrorismo islamico" e il clima di ostilità verso i musulmani hanno prodotto anche in Italia numerosi casi di lavoratori immigrati provenienti da paesi musulmani, inquisiti per semplici sospetti o indizi labilissimi, con grandi campagne mediatiche seguite dal quasi assoluto silenzio quando gli immigrati sono stati rilasciati perché innocenti.

(3) R. Guolo, Xenofobi e xenofili. Gli italiani e l'islam, Laterza, Bari-Roma 2003, p. VI.

(4) P.-A. Taguieff (La nouvelle judéophobie, Mille et une nuit-Fayard, Paris 2002), propone di sostituire "giudeofobia" al termine "antisemitismo", che presuppone la vecchia teoria delle razze e la distinzione razzialista fra "razze semite" e " razze ariane" o "indo-europee".

(5) Vedi The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order (1996), ed. it. Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale, 2000. Huntigton aveva proposto per la prima volta il suo teorema nel 1993 su "Foreign Affairs".

(6) Per un'indagine critica della nozione di civiltà cfr. A. Rivera, 2003, Il disagio della "civiltà". Genealogia di una nozione controversa, "La società degli individui", a. VI, n. 16 (2003/1), pp. 5-19.

(7) M. Hertzfeld, 2001, Anthropology. Theoretical Practice in Culture and Society, Oxford, Blackwell-Unesco, p. 28.

(8) Considerazioni analoghe in J. Cesari, Islam de l'extérieur, musulmans de l'intérieur: deux visions après le 11 septembre2001, "Cultures et conflits", prim. 2002.

(9) R. Guolo, op. cit., p. 76.

(10) Sul culturalismo come determinismo, i conseguenti processi di etnicizzazione, l'uso sociale di nozioni quali "cultura" ed "etnia", il neorazzismo, cfr.: R. Gallissot, M. Kilani, A. Rivera, 2001, L'imbroglio etnico, in quattordici parole-chiave, Bari, Dedalo.

(11) O. Roy, 2003 (2002), Global Muslim. Le radici occidentali del nuovo Islam, Milano, Feltrinelli.

(12) Per un tentativo di tal genere cfr. A. Rivera (a cura di), 2002, L'inquietudine dell'islam (saggi di Arkoun, Cesari, Jabbar, Kilani, Khosrokhavar, Rivera), Bari, Dedalo.


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