Profitti di guerra
 



Miguel Martínez




I pacifisti hanno avuto torto marcio. Solo i pauperisti cattocomunisti possono ignorare un dato lampante: la guerra non è una brutta cosa, e non lo sono nemmeno i profitti. Ce lo dimostra uno dei siti più ottimisti e allegri della rete, www.ricostruzioneiraq.it.

Ricostruzioneiraq.it offre a tutti gli italiani interessati una “Guida e consigli pratici per fare business in Iraq”. In realtà questa definizione riguarda un sito linkato da Ricostruzioneiraq.it, ma potrebbe valere benissimo per il sito stesso.

In particolare il sito ci segnala:

"I nomi delle imprese italiane in prima fila a Kuwait City. Lo sforzo organizzativo dell’Italia sostenuto dall’ICE [Istituto italiano per il commercio estero] perché le imprese italiane potessero prender parte a “Rebuild Iraq” ha dato i suoi frutti: ecco la lista delle 110 aziende del nostro paese che si sono candidate a potenziali investitori.

29/01/2004 – Le 110 imprese italiane che hanno preso parte a “Rebuild Iraq”, la rassegna internazionale dedicata alla ricostruzione tenutasi a Kuwait City, hanno un volto: disponibili nell’allegato di seguito alla notizia i nomi ed i riferimenti anagrafici degli espositori che in un’area di oltre 1.300 metri quadrati hanno rappresentato il nostro paese."


logo delle imprese italiane in Iraq
L'allegro logo di "ricostruzioneiraq.it": "Forza! - Italia - USA - Mercato", con il mondo in mano


Centodieci piccoli tricolori sul campo della gloria, o comunque del successo imprenditoriale, che è più o meno la stessa cosa. L’Iraq del futuro sarà un eccellente partner in un mondo affratellato dalla democrazia. Il 19 settembre del 2003, il governatore americano della nuova provincia, Bremer, ha proclamato l’Ordine 39, che stabilisce che ditte straniere possono possedere il 100% delle banche, delle miniere e delle fabbriche dell’Iraq e possono portarsi a casa il 100% dei profitti.

A casa vuol dire a casa nostra, alla faccia dei disfattisti, degli islamonazicomunisti e di altra gentaglia menagramo che solo un anno fa diceva che la guerra non sarebbe servita a niente.

Non c’è nemmeno da temere la concorrenza dei locali, che sono stati esclusi da tutte le gare. C’è anche una manodopera da sogno, abituata da tredici anni di embargo a stringere la cinghia. Mentre da noi una gioventù viziata non ha voglia di passare la vita in fonderia, e rischiamo multe da capogiro solo perché diamo un lavoro in nero a qualche clandestino venuto dall’altro capo del mondo, in Iraq la guerra ha portato un autentico miracolo: una disoccupazione del 60%.

Ora, qualcuno potrebbe chiedersi chi paga. Sarebbe poco rispettoso elencare tra i paganti qualche decina di migliaia di morti iracheni: ogni progresso richiede i suoi sacrifici, e comunque l’economia non è una cosa sentimentale. Stando al sito, chi paga è qualcosa che si chiama la Trade Bank of Iraq. Ricostruzione.it ci assicura che ha sede negli Stati Uniti, a mezzo mondo di distanza dal paese i cui soldi manipola.

I fondi non mancano: il sito ricostruzione.it ci spiega che ci sono un sacco di soldi che gli Stati Uniti hanno semplicemente tolto dalle mani degli iracheni e si sono messi in tasca loro: 1 miliardo di dollari del petrolio iracheno che passeranno tra poco delle mani dell’ONU a quelle del governo provvisorio, cioè agli Stati Uniti; ci sono 1,7 miliardi fondi iracheni “congelati dagli Stati Uniti e successivamente confiscati”; e circa 1 miliardo di dollari sequestrati in Iraq. Tutti soldi che si trovano “presso la Riserva Federale di New Yorke che sono gestiti personalmente dal signor Lewis Paul Bremer. Il signor Bremer dovrebbe capire bene le esigenze degli imprenditori, visto che lui stesso è Presidente e Amministratore Delegato delle assicurazioni Marsh Crisis Consulting, un'affiliata della Marsh & McLennan Companies, Inc.

Certo, paga anche l’Italia. Sarebbe interessante vedere quanto guadagneranno alla fine le 110 aziende italiane in questione, e quanto invece costerà la missione militare in Iraq. Ma anche se il bilancio fosse in perdita, la differenza è che i costi dell’occupazione ce li dividiamo tra milioni e milioni di contribuenti. Non si può mettere sullo stesso piano la felicità di un signor Brambilla che in un giorno si porta a casa quanto ci vuole per farsi una nuova villa, e l’infelicità del sottoscritto che ci rimette sì e no qualche decina di euro.

Comunque il nostro governo ha pensato anche ai contribuenti. Proprio oggi mi è arrivata la proposta del mio commercialista di aderire al “concordato fiscale preventivo”. Non ci capisco molto, ma ho la sensazione che significhi che mi posso prenotare per evadere le tasse quest’anno. Non lo potrei fare, nemmeno volendo, visto che tutti i signor Brambilla esigono la fattura da noialtri traduttori, però ringrazio il governo per il pensiero.

É giusto anche ricordare che, se il nostro governo non avesse partecipato attivamente all’occupazione, oggi non ci sarebbe stato il tricolore alla festa di “Rebuild Iraq”. Lo ha riconosciuto senza falsi pudori il vice ministro Adolfo Urso, parlando proprio alla fiera di Kuwait:

“"Esistono fortissime aspettative da parte delle imprese italiane, sorrette dall’impegno assunto dal Governo nei confronti della Coalizione, senza dimenticare che il nostro è il terzo Paese contributore di truppe e dall’inserimento di numerosi Esperti civili nella CPA (Coalition Provisional Administration).”
Ma anche l’opposizione ha capito che il gioco vale la candela. Infatti, gli antiberlusconiani che contano hanno avuto la meravigliosa trovata di astenersi per far passare l'occupazione, pur dichiarandosi contrari. La patria non è acqua…

Insomma, i diciannove carabinieri e altri uccisi a Nassiriya non sono morti invano: hanno fatto una buona azione per il nostro paese, e dobbiamo essere loro grati. In particolare dovrebbero esserlo i padroni delle 110 aziende citate nel sito.

Quindi ho pensato di mettere in rete la lista delle aziende e anche i nomi degli italiani morti a Nassiriya.

Le aziende, perché fanno onore al nostro paese e mostrano che lo spirito d’impresa degli italiani, da Colombo in America a Badoglio in Etiopia, non è tramontato.

I nomi degli italiani uccisi in Iraq perché sono certo che le aziende in questione coglieranno il senso di questo articolo, e vorranno offrire un piccolo aiuto alle famiglie dei morti di Nassiriya.

Quindi, ecco i nomi dei carabinieri e altri militari (per non parlare di due civili) morti a Nassiriya:

Domenico Intravaia - Alfio Ragazzi - Giovanni Cavallaro - Daniele Ghione - Enzo Fregosi - Alfonso Trincone - Massimiliano Bruno - Giuseppe Coletta - Ivan Ghitti - Orazio Majorana - Andrea Filippa - Filippo Merlino - Massimo Ficuciello - Silvio Olla - Emanuele Ferraro - Alessandro Carrisi - Pietro Petrucci - Marco Beci - Stefano Rolla.

Ed ecco i nomi delle 110 aziende e organizzazioni imprenditoriali che hanno partecipato alla fiera di Kuwait.

Aggiornamento: in seguito all'uscita di questo articolo, il responsabile di una di queste aziende ci ha scritto, precisando che le aziende presenti in realtà ricadevano in due grandi categorie:

  • Una maggioranza di piccole aziende che avevano partecipato senza alcun intento o protezione politica, e che ovviamente hanno avuto solo spese e nessun contratto;

  • Una ristretta cerchia di grandi aziende, che godono di ottimi appoggi politici e che hanno avuto diversi contratti. Vale la pena notare il fatto che queste ultime avevano il sostegno del ceto politico italiano, nonostante siano tra le prime a "delocalizzare" la produzione, a discapito sia dei loro concorrenti italiani che dei posti di lavoro. Inutile dire che a rimetterci è proprio l'unico paese che i nostri politici dovrebbero rappresentare. Ditte, sia detto per inciso, che godono dell'appoggio politico anche del centrosinistra.
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Buon lavoro a tutti.



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