Ludovico Geymonat


I parte
 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve, apparso per la prima volta sulla rivista Praxis è stato diviso in quattro parti.

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Ludovico Geymonat

1. Ludovico Geymonat (1908-1991) è stato uno dei più importanti filosofi italiani dell'intero Novecento. Si tratta di un giudizio molto impegnativo, che viene dato soltanto a ragion veduta e dopo una meditata riflessione. Impegnandomi in questo giudizio, non sono assolutamente mosso dal criterio della condivisione personale delle soluzioni filosofiche che il Nostro ritenne opportuno dare ad alcuni problemi cruciali. In tre paragrafi successivi dirò brevemente al lettore perché non posso assolutamente considerarmi "geymonattiano", neppure in senso lato o generico, e questo mio dissenso sgorga proprio da una interpretazione alternativa di quello stesso "razionalismo critico" che il Nostro sosteneva. Ma il dissenso e/o il consenso personale e di scuola non è mai in alcun modo un criterio storiografico cui bisogna ispirarsi. Non può neppure essere un criterio storiografico l'amicizia personale, anche se mi è caro ricordare di avere avuto a lungo con Ludovico Geymonat un'affettuosa consuetudine personale, di cui ho come preziosa testimonianza quasi tutti i suoi libri con dediche piene di stima e di sollecitudine. Il solo criterio storiografico valido sta nella collocazione del Nostro nel più ampio contesto della filosofia italiana ed internazionale del Novecento, ed in particolare nel contesto duplice del dibattito marxista e del dibattito epistemologico, che spesso il nostro volutamente identificava.

2. Usando l'espressione il Nostro ritengo di fare cosa grata ai lettori ed agli estimatori di Ludovico, che sanno bene come l'espressione "il Nostro" fosse da lui utilizzata nelle opere di storia della filosofia e del pensiero scientifico per indicare i filosofi e gli scienziati di cui volta a volta si occupava. Geymonat è stato anche, insieme con Nicola Abbagnano, uno dei massimi storici della filosofia italiani nel Novecento. In entrambi i casi, si è trattato di una sorta di "ricaduta" di una propria originale posizione filosofica personale, ovviamente diversa nei due pensatori, anche se in entrambi i casi ispirata ad una sorta di comune laicismo razionalistico.

3. Il Nostro è stato per gran parte della sua vita, e fino all'anno della sua scomparsa, un filosofo comunista. Un filosofo comunista non nel senso che l'oggetto della sua riflessione sia stato il processo politico e sociale di transizione dal capitalismo al comunismo, ma nel senso per cui l'oggetto privilegiato della sua riflessione, che era la natura ed i modi della conoscenza scientifica, era inserito in una filosofia della storia che vedeva nel comunismo un obbiettivo politico possibile, perseguibile, razionale dell'avventura umana.

4. Il Nostro è anche e soprattutto stato un comunista italiano del tutto anomalo e dotato di caratteristiche assolutamente specifiche. Si tende in generale a dire che questa anomalia consisteva nella sua preparazione di tipo matematico e scientifico, in un paese di storicisti e di letterati che non prestava un'attenzione sufficiente ai problemi della conoscenza scientifica. Personalmente, non sono d'accordo con questa frettolosa valutazione storiografica, che porta ad una classificazione dicotomica semplificata fra le due culture, letteraria e scientifica. Da Della Volpe a Colletti, da Preti ad Abbagnano, non sono certo mancati nella seconda metà del Novecento i filosofi che hanno preso sul serio l'impresa scientifica. Io tendo a cercare l'anomalia del Nostro su di un altro versante ed in un'altra dimensione.

5. L'anomalia del Nostro stava nell'essere un comunista assolutamente critico, indipendente e non-conformista, che fra l'obbedienza alla Chiesa-Partito e l'obbedienza alla sua Coscienza Scientifica sceglieva assolutamente e senza ambiguità la seconda. L'espressione "comunista critico" sembra quasi pleonastica ed inutile, perché dovrebbe essere evidente che la nozione di comunista comprende in se stessa, come in un giudizio analitico kantiano, l'attributo di critico. Nei fatti però non è stato sempre così, anzi non è stato quasi mai così. Il comunismo novecentesco è stato quasi sempre una figura antropologica della fedeltà, dell'identità rigida, dell'appartenenza gregaria, e questo forse ancora più fra gli intellettuali che fra i cosiddetti militanti di base. Il Nostro ha militato per un certo tempo nel PCI, e poi ne è uscito motivando le ragioni di questa sua uscita, e sostenendo apertamente che il non-conformista ha il diritto di separare il suo destino dai partiti burocratizzati la cui linea politica e la cui cultura politica non fossero più decentemente condivisibili. Il caso Galileo, da lui tanto studiato, è anche stato il suo modello personale di comportamento.

6. Esiste una sorta di leggenda metropolitana, per cui il Nostro, in quanto simpatizzante per l'URSS e per la Cina, sarebbe stato di fatto uno stalinista. Io sono profondamente convinto del contrario. In ogni caso, il termine di stalinismo è oggi usato con una tale mancanza di esattezza semantica e storiografica da fare paura a chiunque volesse comprenderne le reali dimensioni storiche e teoriche. Io credo che per il nostro si possa dire esattamente ciò che la sua allieva Agnes Heller ha detto a proposito del suo maestro Lukács. Lukács, secondo la Heller, poteva tranquillamente condividere molte o anzi quasi tutte le concrete scelte politiche di Stalin (dalla costruzione economica del socialismo in un solo paese alla politica dei fronti popolari), senza per questo potere mai diventare "stalinista", perché lo stalinismo non consiste semplicemente in un insieme di politiche, ma consiste in una modalità generale religiosa ed irrazionalistica di comportamento, per cui la propria coscienza individuale è annullata e messa a priori al servizio di qualunque scelta strategica o tattica fatta dai dirigenti politici del partito comunista. Lo stesso discorso, a mio avviso, può essere fatto per il Nostro.

7. Nello stesso tempo il Nostro, che pure ebbe una grande simpatia per la Cina di Mao Tsetung, non può neppure essere definito semplicemente maoista, anche se il movimento politico maoista italiano degli anni Sessanta e Settanta guardò sempre a lui come all'intellettuale privilegiato. Di molti maoisti dell'epoca gli mancava il fideismo ideologico parareligioso, e bisogna anche dire che egli seppe cogliere precocemente nella cosiddetta Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (1966-1969) non solo l'aspetto positivo della lotta anti-burocratica di massa, ma anche l'aspetto negativo della ideologizzazione parossistica della scienza e della filosofia, che fu certamente una delle ragioni (anche se non l'unica e forse neppure la principale) della sua sconfitta storica strategica.



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