La storia di Lucio Colletti

un modello di estremo interesse teorico

II parte
 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve, apparso per la prima volta sulla rivista Praxis è stato diviso in tre parti.

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3. Nel lontano 1794 Fichte stabilì metodologicamente la differenza di principio fra quella che chiamava "logica formale" e quella che invece propose di connotare come "dottrina della scienza". La logica, scienza dell'uso corretto delle categorie del pensiero, si basa sulla separazione metodologica fra forma e contenuto, mentre la dottrina della scienza, che è una scienza filosofica (a differenza della logica che non lo è), presuppone un rapporto organico fra un soggetto che progetta, agisce e modifica ed un oggetto naturale e/o sociale che ne viene agito e modificato. E' noto che Fichte connotò questa soggettività umana agente e progettante come Io e questa oggettività naturale e sociale come Non-Io, ma non è questo per noi il nocciolo della questione.

Ed il nocciolo sta invece in ciò, che quando nel 1845 Karl Marx scrisse che i filosofi avevano fino ad allora soltanto diversamente interpretato il mondo, e si trattava ora di trasformarlo, egli non lascia dubbio alcuno di voler riprendere, in una nuova intenzionalità anticapitalistica e comunista, il programma proposto nel 1794 di una dottrina della scienza filosofica basata sulla centrale categoria di prassi. Detto del tutto incidentalmente, è per questo che quando Antonio Gramsci connota il marxismo come "filosofia della prassi" ha perfettamente ragione, almeno dal punto di vista teorico e filologico. Altra cosa, che non c'entra assolutamente nulla con questo, e che anzi fa solo confusione, è se Gramsci fosse o no storicista, e se il marxismo sia o no uno storicismo, cosa che, sulla scorta della critica di Louis Althusser, io ovviamente non credo assolutamente. Ma qui non è di questo che si parla. Qui si sottolinea il fatto che sul piano concettuale la proposta di Della Volpe è confutata preventivamente dal Marx del 1845, che ribadisce la propria adesione, implicita ma anche filologicamente incontrovertibile, ad una concezione di scienza filosofica in senso fichtiano. Per il momento, come si vede, non è neppure necessario introdurre la variante Hegel, che possiamo lasciare ancora dormire tranquilla.

4. A fianco della (per me errata) connotazione del marxismo come scienza non filosofica e come galileismo morale c'è un secondo punto gravido di future confusioni in Della Volpe, e cioè l'equazione fra materialismo e metodo scientifico (si intende: galileiano-newtoniano-darwiniano). Questa equazione a mio avviso non tiene, lasciando perdere per brevità il fatto storico incontrovertibile che la genesi storica e teorica del metodo scientifico galileiano moderno è stata pitagorica, platonica, antiaristotelica ed antimaterialistica. Ma non insisto per carità di patria. Il materialismo non c'entra infatti quasi nulla con il metodo scientifico (più esattamente, con i metodi scientifici differenziati in varie scienze particolari, con protocolli distintivi ed incommensurabili), trattandosi di una concezione filosofica del mondo. Per fare solo un esempio, in contemporanea con Della Volpe ci fu Sebastiano Timpanaro, che propose una concezione leopardiana e naturalistica del materialismo (cui aderì poi in tarda età anche Cesare Luporini), e ci fu Ludovico Geymonat, che propose il materialismo come concezione del mondo dei progressisti e dei comunisti. Ma qui Della Volpe sconta la mancata distinzione di principio fra scienza, filosofia ed ideologia, o più esattamente fra sfera scientifica (con il suo oggetto ed il suo metodo) , sfera filosofica (con il suo oggetto ed il suo metodo) ed infine sfera ideologica (con il suo oggetto ed il suo metodo). Egli sottoponeva bensì a critiche le varie ideologie contemporanee che rifiutava, ma vedendole solo come errore, falsità ed ignoranza, non riusciva a cogliere nell'ideologia la forma normale di organizzazione classisticamente determinata del fisiologico rispecchiamento quotidiano del mondo. Eppure, tutto ciò si poteva capire anche allora. A modo suo Althusser lo capì, e questa è a mio avviso la ragione principale della vittoria schiacciante dell'althusserismo sul dellavolpismo nel campo dei marxismi anti-hegeliani nella seconda metà del Novecento. Ma lo capì ancora meglio il vecchio Lukács, che costruì la sua ontologia dell'essere sociale proprio a partire dal rispecchiamento quotidiano del mondo.

5. Nonostante le due critiche di principio ricordate precedentemente nei punti 3 e 4 riconfermo il mio giudizio storico (storico, non teorico) estremamente positivo su Della Volpe ed il primo dellavolpismo, almeno fino al 1968. E questo per molte ragioni, di cui qui per brevità ne ricorderò solo due. In primo luogo, la proposta dellavolpiana di concepire il metodo marxista come critica delle ipostasi (cioè delle fissazioni astoriche scambiate per storicità) e pensiero delle astrazioni determinate e non generiche (ad esempio non produzione, ma produzione capitalistica, non lavoro produttivo, ma lavoro produttivo capitalistico, eccetera) fu realmente eversiva, rispetto alla pappa pasticciona del generico storicismo progressistico del primo decennio del PCI togliattiano. In secondo luogo, è possibile sostenere (ed è infatti la mia personale opinione storiografica, di cui Raniero Panzieri è un chiaro esempio) che il dellavolpismo diede la forma, e l'operaismo diede poi il contenuto, della nuova sintesi teorica che la nuova sinistra elaborò negli anni Sessanta. Questa nuova sintesi non si contrappose a Palmiro Togliatti ed al togliattismo, che sono cose che con Antonio Gramsci ed il gramscismo non c'entrano proprio niente. In proposito, non essendoci lo spazio per argomentarlo, rimando il lettore alle pagine filosofiche di Gramsci contro il determinismo come religione delle masse subalterne, che è appunto la religione progressistica con cui le masse togliattiane furono modellate ed intrise in nome di uno storicismo il cui esito segreto (ma parzialmente prevedibile già allora) fu il buonismo cattivissimo di Veltroni ed il sorriso cinico di Massimo D'Alema durante la sua gestione della guerra imperiale del Kosovo del 1999. Ma su questo stendiamo per pudore un velo pietoso.

6. I precedenti richiami ci permettono di affrontare il problema del primo Lucio Colletti, il Colletti dellavolpiano, il Colletti marxista, il Colletti originale. Su questo Colletti rimando anche ad una tesi originale sostenuta all'università di Roma nel 1999-2000 dalla giovane studiosa Cristina Corradi, che ricostruisce analiticamente l'intero itinerario filosofico di Lucio Colletti in modo documentato e plausibile. Qui mi limito per brevità a mettere a fuoco quello che resta a mio avviso il contributo maggiormente positivo e convincente del Colletti marxista, la sua vera e propria pars costruens, la messa in evidenza della centralità della nozione marxiana di "rapporti sociali di produzione". Non fosse che per questa sola cosuccia, Colletti meriterebbe già una menzione positiva.

Ricordo qui solo incidentalmente la pars destruens di Colletti, peraltro integralmente dellavolpiana, contro il romanzo cosmologico-positivistico denominato "materialismo dialettico" (Diamat), che con l'originario contributo teorico (a mio avviso non intenzionale e pertanto con responsabilità solo indiretta) di Engels prima e di Lenin poi, ma con l'integrale innocenza di Marx, Stalin impose agli apparati ideologici di partito ed ai sistemi scolastici di stato dell'intero comunismo storico novecentesco, e che durò fino al 1991, sintomo secondario ma interessante della totale irriformabilità del baraccone. Io condivido al 100% la critica distruttrice di Colletti, anche se non posso fare a meno di notare che l'epica battaglia fra Della Volpe e Colletti, da una parte, ed Engels e Lenin, dall'altra, è pur sempre una guerra civile fra polli dello stesso pollaio, fermamente uniti nel volere entrambi una fondazione puramente scientifica e non filosofica della dottrina del materialismo storico marxista, e nel connotare entrambi come "idealistica" (con uso semantico dispregiativo della parola) ogni concezione di autonomia della conoscenza filosofica distinta da quella scientifica. Ma trascuriamo pure questo punto, peraltro non marginale, anche se non essenziale nell'economia del mio bilancio critico.

Tornando alla centralità collettiana dei "rapporti sociali di produzione", è bene rilevare che nel contesto della congiuntura culturale di quegli anni (fine anni Sessanta - inizio anni Settanta) questa centralità era difesa anche dalla parallela scuola althusseriana e dai suoi esponenti italiani (Gianfranco La Grassa, eccetera), oltre che ovviamente dalla pratica politica della nuova sinistra dei gruppi, di cui abbiamo già ricordato precedentemente la genesi ad un tempo dellavolpiana ed operaistica. Colletti arriva a questo concetto attraverso la sua particolare strada, quella della critica alle ipostasi e della astrazione determinata, e quella dell'integrale autonomizzazione del materialismo storico, come scienza appunto della dinamica storica dei rapporti sociali di produzione, sia dallo scorrimento progressista del tempo dello storicismo sia dall'incorporazione nel romanzo cosmologico del materialismo dialettico. Fu questo, a mio avviso, che diede meritatamente (e sottolineo apposta questo avverbio) fama internazionale a Colletti. Si sentiva il bisogno di un marxista che ristabilisse il fondamento teorico del comunismo nei rapporti sociali di produzione. Fu questo che piacque, e che entusiasmò (e qui posso tranquillamente fare anche un riferimento personale, perché anch'io ne fui entusiasmato, e per un certo tempo fui anche un propagandista gratuito all'estero del pensiero di Colletti). Ed ecco che, improvvisamente, lo sperato teorico annunciato della centralità dei rapporti sociali di produzione diventava il teorico del congedo radicale da ogni tipo di marxismo. Questo passaggio dal dottor Jekill a mister Hide merita una riflessione.



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