Alterazioni del paesaggio

quinta parte
 

di Walter Catalano
pubblicato qui agosto 2005



Il convoglio si mosse di nuovo sollevando cortine quasi solide di polvere sulla strada assolata. Si erano lasciati alle spalle almeno da un'ora il riverbero d'argento lebbroso del Mar Morto e procedevano lentamente verso l'interno, inoltrandosi nel deserto in una prospettiva labirintica di pinnacoli rocciosi. In testa e in coda solo due jeep con mitragliatrice montata, dieci camion di profughi - circa duecento persone, in prevalenza donne, vecchi e bambini, le cui condizioni generali erano discrete, aveva concordato Flavia con Evron dopo aver dato una sommaria occhiata al carico - e due di osservatori, giornalisti e soldati.

Flavia occupava con Ippoliti, una corrispondente del Frankfurter Zeitung, un misterioso americano e sette soldati, una vettura nella parte centrale della colonna. Avevano perso di vista da tempo Evron disperso da qualche parte e si erano fatti solo un'idea vaga di chi e di dove fossero gli altri ospiti embedded. La tedesca stava flirtando con l'americano che le mostrava tatuaggi multicolori sulle braccia muscolose mentre uno stereo diffondeva a ripetizione, mandando in estasi gli autisti, un vecchissimo pezzo dei Rolling Stones che Flavia aveva sempre detestato: Angie. Ippoliti ronfava rannicchiato sul sedile sobbalzando con un leggero grugnito ad ogni scossone sulla strada dissestata. Gli autisti dopo un'animata contrattazione cambiarono finalmente brano passando, senza troppa fantasia, a Sister Morphine.

La destinazione del viaggio non era affatto chiara: Evron aveva parlato di un campo di lavoro all'estremo sud della penisola e l'ufficiale che guidava il convoglio - un capitano col cranio rasato e l'abbronzatura perfetta che faceva il verso a Moshe Dayan, con tanto di benda sull'occhio (Flavia era sicura che ci vedesse benissimo e la tenesse solo per aumentare il suo carisma guerriero) - di un altro, distante parecchie centinaia di kilometri dal primo. Di certo il vero luogo di raccolta non era né questo né quello e gli israeliani non ci tenevano a divulgarlo: la presenza dei giornalisti era puramente rappresentativa.

Flavia, sveglia dalle prime ore del mattino, aveva riempito i tempi morti del viaggio stando in silenzio e ripensando ai giorni appena trascorsi: la cicatrice sulla fronte di Ippoliti, addormentato come un Lucignolo deluso dal Paese dei balocchi, ne era una sottile porta d'accesso. L'esplosione durante il party della A-Shem non aveva fatto vittime se non lo stesso kamikaze: una studentessa di medicina di ventun'anni che aveva pagato un prezzo molto alto per interrompere una festa.

Nel turbine di ambulanze e volanti della polizia Flavia e Ippoliti si erano attardati insieme ad Evron, che aveva medicato personalmente il ferito, ripercorrendo poi a passi lenti le stazioni della Passione verso il Golgota. Durante la passeggiata notturna avevano fumato tutta l'erba rimasta e si erano scolati un'intera bottiglia di Bowmore, sottratta ad un barman consenziente.

"Non sta bene dirlo in questo momento - aveva puntualizzato Evron - ma se fossi un palestinese farei esattamente quello che fanno loro. Invece sono un ebreo e un cittadino israeliano e faccio il mio dovere". "E quale sarebbe il suo dovere ?" - aveva sottilizzato Flavia.

Evron era scoppiato a ridere. "Io sto con gli angeli". Aveva detto alzando uno sguardo rassegnato verso l'incombere minaccioso dei droni nel cielo buio. "Questi sono gli unici angeli che ci sia dato conoscere". Ippoliti aveva vomitato in un angolo, proprio dalle parti del Calvario. "Non mi piace il futuro. - aveva farfugliato - Voi ebrei siete dei feticisti del futuro. Io amo il passato, invece, se è bello. O il presente. Se penso al futuro vedo solo la mia morte".

"La morte è la soluzione, la vita il problema. Si beva pure l'ultimo sorso di Scotch" - aveva tagliato corto Evron.

Flavia interruppe le sue reminescenze. Il convoglio si era bruscamente fermato. La tedesca e l'americano si alzarono cercando di scendere ma i soldati israeliani, con un gesto esplicito, fecero loro intendere che non era il caso. Ippoliti si riscosse dal suo sonno comatoso.

"Che succede ?" - chiese a Flavia con voce impastata.

"Non so. Si sono fermati."

"Strano. Dove siamo ?"

"E chi lo sa. In mezzo al deserto. Evron direbbe che stiamo raccogliendo la manna come Mosè": "Che vada a farsi fottere pure Mosè" - imprecò Ippoliti: evidentemente non si era svegliato di buon umore.

Per una quarantina di minuti i quattro osservatori si scambiarono in varie lingue le loro improbabili ipotesi sulle ragioni della sosta e cercarono di estorcere ai soldati qualche notizia: ma questi tacevano, giocavano a carte o fingevano di dormire. Gli autisti avevano alzato il volume dello stereo: le note di Shelter from the Storm di Bob Dylan ora invadevano l'abitacolo. Finalmente l'emulo di Moshe Dayan cacciò la sua faccia da pirata oltre il telo grigioverde del furgone, facendo cenno di scendere. Raggruppati ai lati dei camion in un ampio spazio sassoso, gli ospiti stranieri cercavano di sporgersi oltre la fila schierata di soldati per osservare le insolite procedure in corso. Tutti i deportati erano stati tirati giù dai camion e si trovavano accalcati in un ampio spazio sabbioso: si distinguevano facce esangui di bambini, donne fiere, uomini scarni. Una coppia di soldati stava scortando Evron in mezzo ai palestinesi: il dottore li esaminava uno per uno, faceva loro aprire la bocca guardando i denti, li auscultava brevemente con lo stetoscopio; poi diceva qualcosa ad un assistente che prendeva nota su un taccuino e controllava il numero marchiato con inchiostro indelebile sul braccio destro di ogni profugo.

"Che diavolo fa ?" - chiese Flavia.

"Non so. Li visita, mi pare" - rispose Ippoliti torvo.

Uomini, donne e ragazzi più grandi venivano incolonnati su una lunga fila, mentre vecchi, bambini piccoli, uomini e donne in condizioni di salute palesemente più precarie erano subito ricondotti sui camion. Il sole picchiava ferocemente e il sudore imperlava le fronti di guardiani e prigionieri: era l'ora delle febbri, l'ora in cui appaiono i demoni meridiani.

La lunga fila degli uomini validi marciò verso i camion di testa, furono caricati a bordo con esasperante lentezza, poi si avviarono i motori. La colonna ora si era divisa in due tronconi: una jeep e sette camion da una parte e una jeep e cinque camion dall'altra. Evron si diresse verso il gruppo più numeroso: Flavia, oltre la barriera dei soldati, cercò di fargli un timido cenno con la mano ma il dottore la ignorò salendo in fretta sul retro della jeep che apriva la colonna. Moshe Dayan impartì l'ordine di rompere i ranghi ed i soldati si ridistribuirono ordinatamente lungo i due tronconi del convoglio sospingendo tutti gli osservatori stranieri verso quello guidato da Evron. Flavia capì che era solo questione di minuti e che, se i militari li obbligavano ad andare da una parte, lei avrebbe dovuto precipitarsi dalla parte opposta, cercando di imboscarsi in una vettura dell'altro gruppo. Ippoliti per fortuna non era un problema: poco socievole dopo il brusco risveglio, stava già montando sul camion più vicino insieme a tre altri giornalisti. Flavia gli gettò un rapido bacio facendogli capire a gesti che sarebbe salita sul furgone seguente insieme ai due vecchi compagni, la tedesca e l'americano, che già si stavano inerpicando sul predellino posteriore. Invece, approfittando della distrazione dei soldati circostanti, sgattaiolò sotto il furgone e, passata dall'altra parte, percorse al riparo di una ripida parete rocciosa il breve tratto fino all'ultimo camion della seconda colonna. Sperando che nessun guardiano fosse salito a controllare gli occupanti dell'auto, saltò dentro trattenendo il respiro. C'erano solo pochi vecchi, un paio di donne dall'aria sofferente e dei bambini molto piccoli che la fissavano con aria stupita.

"Salam" - salutò Flavia con un mesto sorriso.


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