L’ultima transizione:

La tragicomica storia romanzata dei rapporti di Fausto Bertinotti con il comunismo ed i veri problemi che ci stanno dietro

VI parte

 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve su Fausto Bertinotti e la "non violenza" è stato diviso in sette parti, più un'introduzione.

All'introduzione su Fausto Bertinotti e la non violenza

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6. Si può rifondare il comunismo, o almeno travasarvi i suoi principali contenuti emancipativi, nel cosiddetto Movimento dei Movimenti, o Movimento No Global, o come altrimenti vogliamo chiamarlo?

Siamo arrivati paziente lettore, alla terza ed ultima domanda. E siccome è lunga, e c’è già nel titolo del sesto paragrafo, risponderò subito: no, assolutamente no, e chi lo pensa è veramente un illuso e vuole continuare a raccontarsi delle storie, seguendo peraltro la gloriosa tradizione illusionistica del movimento comunista. A questo no reciso si accompagna però un’ipotesi cautamente possibilistica, che non mancherò di ricordare.

Il cosiddetto Movimento No Global ha già quasi cinque anni (2000-2004). E’ un periodo storico molto breve, ma non brevissimo. All’inizio era opportuno avere una cautela metodologica nel giudizio, e non affrettarsi troppo per arrivare a un sia pure provvisorio e rivedibile bilancio. Ma oggi continuare a non farlo è opportunismo puro. Un movimento non può essere giudicato sulla base della “buona fede” e delle “buone intenzioni” dei suoi partecipanti di base tagliati fuori da ogni gestione politica, amministrativa e simbolica, ma deve essere prima di tutto giudicato (come del resto è sempre avvenuto nella storia, dagli Egizi ad oggi) dal profilo politico e culturale che gli viene dato dalle sue direzioni, non importa se formali o informali (e le direzioni informali sono le più pericolose ed ipocrite, perché sfuggono ancora di più di quelle formali ad ogni controllo politico di base). E allora possiamo, ed ancor più dobbiamo, rischiare un giudizio storico-politico complessivo su questo Movimento No Global visto nell’insieme.

Questo Movimento No Global è un movimento petizionistico, ritualistico, politicamente corretto e quindi “sistemico”, nel senso di rigorosamente “endosistemico”, e cioè totalmente interno al sistema, di cui rappresenta la coscienza infelice del neoliberismo, lo sfogo consentito ed anzi favorito del ceto medio occidentale, e quindi la vera “opposizione di Sua Maestà” sia formale che sostanziale. Vediamo la cosa analiticamente. Prima, però, voglio far notare un ulteriore elemento apparentemente secondario, ma in realtà molto significativo.

Questo movimento è strutturalmente privo di memoria storica ed incapace di bilancio storico, perché ha adottato la sciocca teoria del Novecento come secolo della violenza, dei dittatori, del fordismo e del comunismo, in modo da poterselo “lasciare alle spalle” senza realmente “superarlo”. A questa insufficienza storica si unisce anche una altrettanto penosa insufficienza filosofica, perché il grande Hegel già disse che un concetto che non si determina non è veramente un concetto, e non essendo un concetto non può fare da orientamento ad un movimento reale (esempio di concetto non determinato, e quindi non concetto, “un altro mondo è possibile”). Abbiamo dunque un movimento programmaticamente incapace di memoria storica (il Novecento è l’orribile secolo della violenza e dei dittatori fordisti-comunisti) e di determinazione filosofica (un altro mondo è possibile, frase su cui ognuno può ricamare il proprio arbitrio soggettivo più scatenato). Se sono stato tanto severo verso Bertinotti, definito con la formula FB=DC/PP, non è certo per astio personale, ma perché questo personaggio mediatico impersona a mio avviso queste due caratteristiche.

Ma passiamo ad una analisi più ravvicinata del Movimento No Global. Esso è “petizionistico”, perché assume la forma politica delle petizioni ai potenti della terra. Il fatto che oggi le petizioni vengano porte con accompagnamento di musica rock anziché con minuetti e gavotte è rilevante solo sul piano estetico. Il circo contestatore che si raduna a Davos in Svizzera per “contestare” i potenti della terra con sfilate di emarginati di professione rappresenta fino in fondo quella tragicommedia occidentale che si rappresenta fin dal 1968, e cioè la “contestazione” al posto della “rivoluzione”, più esattamente il fatto che non potendo o volendo più fare la rivoluzione se ne mima teatralmente un surrogato “contestativo”.

Il Movimento No Global è “ritualistico” nel senso individuato fin dal lontano 1983 da Günther Anders (da Günther Anders, non da Costanzo Preve!). Da circa due decenni le manifestazioni ritualizzate sono tutte eguali, e rappresentano una forma particolarmente degradata di “cerimonialità impotente istituzionalizzata”.

Al centro bandieroni della pace lunghi quaranta miglia, secondo il principio delle bandiere delle squadre di calcio. Poi un immenso corteo salmodiante con giovani dipinti, eccentrici su trampoli, famigliole con bandierine, coppiette alla Peynet, ceto politico esibizionista in prima fila, preti progressisti, extracomunitari pittoreschi. Ai lati del corteo è sempre previsto un dramma satiresco che si compie a fianco della commedia, basato su giovani in passamontagna con il casco da motociclista che spaccano vetrine ampiamente assicurate ed improvvisano passi da break-dance con loro coetanei a reddito minore vestiti da poliziotti catafratti, mentre il ceto politico esibizionistico ufficiale ripete il mantra per cui “non c’entrano nulla con il movimento”. Curioso, visto che si muovono ancora più veloci degli altri.

Questo ritualismo non esprime soltanto una forma di impotenza (l’impotenza si ritualizza sempre per esorcizzare la propria cattiva coscienza), ma rappresenta anche plasticamente il passaggio epocale da Karl Marx a Guy Debord, cioè dal sogno della rivoluzione proletaria alla realtà amara della società dello spettacolo. In proposito, io non ho nulla sul fatto che di tanto in tanto la masturbazione maschile e femminile sostituisca la mancanza di un partner assente. Sono solo contrario a che essa venga battezzata “amore romantico”.

Il Movimento No Global non è solo petizionistico e ritualizzato. Questi sono anzi aspetti secondari. Il Movimento No Global è soprattutto un movimento sistemico nel senso di “endosistemico”, pienamente interno al sistema. A differenza di come pensano gli ingenui, il moderno capitalismo post-borghese non è una dittatura mono-ideologica, cioè ad ideologia fissa. Le dittature mono-ideologiche (esempi: il comunismo storico Novecentesco, i vari fascismi, i populismi a partito unico, ecc.) sono deboli, perché non possono metabolizzare le opposizioni ed anzi se le concentrano tutte contro. Il moderno capitalismo post-borghese (solo Bertinotti è ancora convinto che sia al potere oggi una “borghesia conservatrice”, basandosi su di una teoria massimalistica di mezzo secolo fa mai rinnovata) ha invece bisogno di un’opposizione, che segnala problemi irrisolti o male risolti, e deve soltanto impedire che si costituisca una vera opposizione incompatibile.

Il Movimento No Global è su questo punto impagabile. Abbasso il tiranno Milosevic. Abbasso il tiranno Saddam Hussein. Abbasso i terroristi palestinesi. Abbasso il vecchio dittatore Fidel Castro. Abbasso il governo della Birmania. Abbasso il negro dittatore Mugabe. Abbasso i partigiani iracheni combattenti. Abbasso le obsolete sovranità nazionali, vogliamo una “globalizzazione alternativa” (???), non certo un ripristino della sovranità degli stati nazionali. E via concionando. E come il bambino ad un certo punto si accorge che il re è nudo, ad un certo punto verrà un bambino che dirà: “Ma questi No Global vogliono nel fondo le stesse cose che vogliono le oligarchie giornalistiche e politiche dominanti!”.

Già, proprio così. La sinistra politicamente corretta non se ne è ancora accorta dopo cinque anni. Vi sono però alcuni segni, sia pure timidi. Ad esempio il VIP della sinistra Tarik Alì (cfr. “Il Manifesto”, 29-01-04) sostiene che la sinistra occidentale (e quella italiana in particolare, la più ripugnante di tutte, perché legata politicamente a doppio filo al cinico baffetto bombardatore della Jugoslavia nel 1999) ormai fa schifo, perché di fatto la sua posizione è contraria alla guerra e favorevole all’occupazione americana dell’Irak come male minore di fronte al ritorno dei baffuti del Baath o dei barbuti sciiti nemici di radicali e femministe. Tarik Alì resta comunque un segnale positivo. Quando due mesi fa le stesse cose le sostenne il Campo Antimperialista fummo accusati da tutti i pagliacci del ceto politicamente corretto di essere dei fascisti infiltrati. Vedo che il tempo in certe cose è galantuomo.

Lo stesso “Manifesto” rivela inaspettati soprassalti di lucidità (cfr. 31-12-03). Scrive Marco Bascetta:

“Poche definizioni furono più infauste e iettatorie di quella di ‘seconda potenza mondiale’ di cui la stampa d’oltreoceano gratificò nel febbraio scorso il movimento globale contro la guerra, che subito lo assunse con orgoglio e baldanza. A dire il vero, come grande potenza geopolitica il movimento non ha dato grande prova di sé, non riuscendo ad ostacolare lo scoppio della guerra, né ad influire minimamente sul suo corso e nemmeno a demolire radicalmente l’immagine e la credibilità dei suoi fautori, per poi subire il contraccolpo della delusione. Meglio sarebbe stato diffidare delle lusinghe”.
Bravo Bascetta. E continua Bascetta:
“C’è chi, di fronte a quella specie di innocua fiera del prodotto politico alternativo che è stato il Forum Europeo di Parigi, continua a consolarsi, di fronte alle piazze sempre più vuote, con la convinzione per cui il movimento sarebbe un dato strutturale…ma i movimenti in sé non esistono, perché non sono affatto un dato strutturale, né una determinazione sociologica, e nemmeno un umore dell’opinione pubblica, ma solo una forma e pratica politica che ne contesta e ne contrasta altre”.
Ed ancora bravo Bascetta. Richiamo tre punti, e cioè che questi babbioni hanno creduto nelle lusinghe di chi li proclamava seconda superpotenza mondiale, che organizzano innocue fiere del prodotto politico alternativo, e che infine non esistono movimenti in sé, ma solo pratiche politiche che ne contrastano altre. Bascetta fa l’esempio dei COBAS dei trasporti, ma io mi permetto di fare un esempio ancora più nobile, quello dei resistenti iracheni che armi in pugno colpiscono i mercenari che hanno occupato il loro paese in spregio del diritto internazionale e sulla base di risibili menzogne.

Il lettore di questo mio un po’ umorale saggio sa bene che un solo resistente iracheno contrasta il sistema imperiale neoliberale più di mille tavole rotonde in cui Toni Negri, Naomi Klein e Vittorio Agnoletto invocano la globalizzazione alternativa (e Negri si rivolge anche alle “aristocrazie mondiali” perché lo ascoltino - è proprio vero che gli italiani sono sempre i più buffoni di tutti!). E allora, dobbiamo dedurne che il Movimento No Global è solo un astuto strumento delle oligarchie capitalistiche?

No, non intendo questo. Le sue dirigenze informali (a proposito, chi gli paga i loro frenetici viaggi?) lo sono sicuramente. Ma è indiscutibile che, dopo la tragicomica caduta del comunismo storico novecentesco (1917-1991) e l’inutile riproposizione settaria dei residui ideologico neo-stalinisti e neo-trotzkisti, moltissime persone al mondo hanno l’occasione di una loro prima politicizzazione nelle strutture del baraccone No Global. Questo è un fatto, ed è sempre inopportuno trascurare i fatti.

E’ anche necessario prestare un po’ di attenzione a Bombay gennaio 2004. Mentre a Porto Alegre, Firenze e Parigi il grande spettacolo era teleguidato e manipolato dagli apparati rispettivi del partito del lavoro brasiliano, del correntone diessino e rifondarolo tosco-emiliano ed infine dei politici socialisti francesi (con la loro ridicola appendice comunista, passata da Marchais al post-moderno), a Bombay questa operazione politica non è stata possibile, ed ha potuto organizzarsi un’ala radicale e rivoluzionaria (Allah e Brahma la assistano e la facciano crescere!) che a Porto Alegre, Firenze e Parigi era stata neutralizzata dal ceto politico di governo.

E’ una piccolissima speranza. La speranza, cioè, che dentro questo pittoresco baraccone manipolato dai due apparati mediatico e politico si possa fare strada progressivamente un’ala anticapitalista. Non intendo dire un’ala di “sinistra”, perché la sinistra oggi è contro la lotta armata dei popoli ed è contro la sovranità degli stati nazionali, ed è dunque contro le due uniche cose che si oppongono allo strapotere dell’impero americano. Intendo dire un’ala anticapitalista e rivoluzionaria che sappia sviluppare il suo programma in termini nuovi, oggi in gran parte inediti ed anche inimmaginabili.

Non credo ovviamente, e l’ho maniacalmente ripetuto in tutto questo saggio, ad un rilancio di gruppi neo-stalinisti e neo-trotzkisti. I gruppi di tipo neo-maoista sono un po’ meglio, perché almeno credono nella questione nazionale e nella lotta armata popolare, ma non credo che neppure loro siano “strategici”, perché non credo assolutamente che il cosiddetto “accerchiamento delle metropoli” da parte delle masse povere possa risolvere i nostri problemi anti-capitalistici. In questo, lo ripeto, resto un seguace “ortodosso” di Marx. E’ in ultima istanza nei punti alti della produzione capitalistica che possono venire alla luce opposizioni rivoluzionarie realmente inter-modali.


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