L’ultima transizione:

La tragicomica storia romanzata dei rapporti di Fausto Bertinotti con il comunismo ed i veri problemi che ci stanno dietro

V parte

 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve su Fausto Bertinotti e la "non violenza" è stato diviso in sette parti, più un'introduzione.

All'introduzione su Fausto Bertinotti e la non violenza

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5. Si può rifondare il comunismo in generale, ed è opportuno tentare di farlo?

Se conosco bene i miei polli, a questo punto aguzzeranno le orecchiette, perché questa è per loro la domanda da un milione di dollari: si può rifondare il comunismo in generale, ed è opportuno tentare di farlo?

La mia risposta è: in linea generale generale sì, ma dipende di quale comunismo vogliamo parlare. Tutto qui, si dirà? Sento già un silenzioso coro di delusione. Per dire una simile banalità ci arrivavo anch’io, e non c’era bisogno di un filosofo che afferma di conoscere il greco antico e il tedesco!

Non ritengo con tutto il rispetto, che sia una banalità. Penso anzi che bisogna ripartire proprio non solo dalla domanda, ma anche da questa risposta, e se siamo conseguenti e logici in questa prospettiva da qualche parte arriveremo certamente.

Iniziamo dal cosiddetto “ritorno a Marx”. Ci può aiutare Marx a rispondere a questa domanda? In breve, Marx ci può solo aiutare ad impostarla, ma non ce la risolve assolutamente. Nel 1844 parlò del comunismo “non come ideale, ma come il movimento reale che supera lo stato di cose presenti”. Affermazione anti-utopistica interessante, ma anche affermazione generica che solo un incorreggibile confusionario può continuare a ripetere come un mantra comunistico-buddista (ma temo che sia esattamente quello che fa FB=DC/PP). Nel 1875 parlò del comunismo come quella specie di “società finale” (nel senso di lieto fine della storia) in cui ciascuno avrebbe dato alla società secondo i suoi bisogni.

A parte il fatto che il concetto di “bisogno” non è affatto chiaro come sembra (bisogno naturale? Bisogno artificiale?), è evidente che si tratta di una sorta di ideale della ragion pura pratica in senso kantiano. Se poi vogliamo uscire dal kantismo per entrare in un terreno più”concreto”, allora possiamo fondare il comunismo sulla progressiva formazione di un lavoratore cooperativo collettivo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleato con le potenze mentali della produzione capitalistica, da Marx connotate con il termine inglese di general intellect. Ma su questo rimando alle decennali osservazioni di Gianfranco La Grassa, che ha mostrato come questo modello si basa su una estrapolazione di socializzazione a livello di fabbrica, anzi di fabbrica-mondo, mentre a livello di impresa, anzi di imprese-mondo al plurale, non funziona. In ogni caso, scommetto a colpo sicuro che FB=DC/PP non ne sarà mai venuto a conoscenza, impegnato a leggere l’ultimo scambio di opinioni epocali fra Rossana Rossanda e Marco Revelli.

Lasciamo da parte provvisoriamente il barbuto tedesco fondatore della ditta, e passiamo al comunismo storico. Su questo comunismo, a mio avviso, ci sono molti approcci possibili, ma io per brevità vorrei ridurli a due, che definirò l’approccio storicista e l’approccio utopista. Per i lettori di questa rivista collegherò l’approccio storicista a Domenico Losurdo, e l’approccio utopista a Francesco Giuntoli. Lo faccio non solo perché si tratta di due amici e compagni, che certo mi perdoneranno per averli chiamati in ballo, ma anche perché una sommaria esposizione del loro punto di vista (ovviamente da me liberamente interpretato) è stato pubblicato su due numeri di questa rivista (cfr. “RossoXXI”, n. 13, dicembre 2002 e n. 17, dicembre 2003). Proverò a riassumerli sommariamente. I due interessati mi scusino per eventuali imprecisioni o fraintendimenti, ma potranno sempre reintervenire per rimettere i puntini sulle i.

Comincerò dall’approccio storicista di Domenico Losurdo, che riassumerò così. Possiamo continuare a definirci “marxisti”, perché Marx era un critico del capitalismo, ed ha inoltre impostato bene nell’essenziale il problema della transizione fra capitalismo e comunismo sulla base non di progetti astratti, ma di ricognizione di forze materiali. Ma Marx aveva anche alcuni difetti strutturali, come l’eccessivo eurocentrismo e soprattutto la teoria utopica ed impossibile dell’estinzione dello stato. Lenin corresse Marx in meglio e non in peggio, perché collocò l’anticapitalismo sul terreno più ampio dell’anticolonialismo e dell’anti-imperialismo. Altro che ritorno a Marx senza Lenin! Ci vuole piuttosto il contrario!

A questo punto, il comunismo storico novecentesco non deve essere visto come una sommatoria di errori, crimini e tradimenti, ma come un primo tentativo, pienamente legittimo, di costruire una società anticapitalista. Il suo principale difetto, paradossalmente, fu l’aver preso sul serio l’errata teoria dell’estinzione dello stato, con la conseguenza di lasciar libero corso agli arbitri settari del partito. Come si vede, c’è anche una ripresa “di sinistra” di Hegel e della sua teoria dello stato, che Losurdo (a mio avviso correttamente) non interpreta affatto come stato autoritario e reazionario. In conclusione, Losurdo ci dice che non bisogna “rompere” con la tradizione del comunismo storico novecentesco, ma assumerla come la sola realtà storica veramente esistita i cui effetti sono anche stati più positivi che negativi. Una lettura assolutamente opposta a quelle del tipo Bertinotti-Revelli.

Riassumerò l’approccio utopista di Francesco Giuntoli più o meno così. Marx è interessante ed importante proprio perché ha preso sul serio la questione dell’estinzione dello stato, che è poi la questione eterna dell’autogestione economica e dell’autogoverno politico. Ciò che conta in Marx (e che Lenin ha ripreso solo sporadicamente in Stato e Rivoluzione) è questo programma radicale di democrazia di base, senza cui lo stesso termine di “comunismo” è insensato. Certo oggi siamo più che mai “lontani” dal comunismo, ma è necessario superare il pessimismo congiunturale del tempo presente e tener fermo il programma radicale di Marx, e cioè superamento delle classi e superamento dello stato.

Spero di aver riassunto Losurdo e Giuntoli senza aver fatto loro il torto del fraintendimento radicale. Il lettore noterà che in entrambi è centrale il tema della teoria dell’estinzione dello stato in Marx (su cui consiglio il buon libro di Danilo Zolo, La teoria comunista dell’estinzione dello stato, De Donato, Bari 1974 e l’interessante valutazione di Norberto Bobbio, Né con Marx né contro Marx, Editori Riuniti, Roma 1997, pp.203-207). Ebbene, voglio prendere posizione sia sull’approccio di Losurdo sia sull’approccio di Giuntoli. A mio avviso i due approcci sono apparentemente opposti, perché bloccano la discussione in una infinita ripetizione. Se continuiamo a porci il problema attraverso la dicotomia opposizionale storicismo/utopismo possiamo andare avanti altri duecento anni ripetendo le stesse due serie di argomenti, che a mio avviso pesano in modo perfettamente uguale e sono dunque a somma zero. Per usare il lessico di Kant, si tratta di coppie di antinomie che sono per definizione a somma zero.

E allora, come cambiare terreno? Mi dispiace di ripetere per la cinquantesima volta con maniacale insistenza la mia impostazione, e so perfettamente che la cosa può diventare ridicola, ma c’è una cosa su cui Losurdo e Giuntoli stanno da una parte, e Preve sta dall’altra. Io credo infatti che se non si ha il coraggio di abbandonare la teoria del soggetto rivoluzionario comunista operaio e salariato, insieme con le sue varianti altrettanto “soggettivistiche” (contadini poveri, donne e femministe varie, moltitudini desideranti composte da uomini, animali ed organismi cibernetici, e via sempre più delirando) non se ne esce, e continueremo a fare come i soldati che fanno il “passo”, e cioè pestano sempre i piedi nello stesso posto.

Naturalmente, ed è già umiliante per me doverlo dire, questo non significa affatto disprezzare e sottovalutare le lotte difensive dei lavoratori salariati, dai metalmeccanici agli autoferrotranvieri. Io sono completamente al loro fianco, e preferisco addirittura i COBAS ed i CUB ai vecchi sindacati consociativi CGIL-CISL-UIL, e questo non certo perché sono più “estremisti” (chi pensa questo proprio non mi conosce!), ma semplicemente perché sono più “democratici”, nel senso che rappresentano meglio i lavoratori interessati. La questione è storica e strutturale, e finché non la si porrà in modo storico e strutturale Losurdo e Giuntoli continueranno a ripetersi i loro argomenti storicisti ed utopisti, ed in mezzo il terminator FB=DC/PP continuerà a tenere il centro della scena con le sue trovate estratte dall’ultimo articolo di Pietro Ingrao e dall’ultimo libretto di congedo epocale di Marco Revelli. Possibile che non si riesca a capire una cosa tanto semplice?

Cominciamo ad usare la buona vecchia logica dicotomica di Aristotele, tanto migliore delle farfallonate post-moderne. I concetti di classe operaia, classe proletaria e classe dei salariati non sono sovrapponibili, ed il lettore lo capirà anche se non ho qui lo spazio per distinguerli come sarebbe necessario. Prendiamo fra i tre il concetto più ampio e comprensivo, quello di classe dei salariati (cui si estrae plusvalore), in modo da poterci comprendere anche ingegneri, tecnici, amministrativi, ecc., fino ai cosiddetti lavoratori “improduttivi” (di plusvalore), la maggior parte dei quali sono assai più utili alla riproduzione sociale (medici, insegnanti, addetti ai servizi, ecc.) di quanto lo siano molti lavoratori produttivi in senso marxiano (produttori di armi, di sostanze nocive ed inquinanti, ecc.). Bene, si hanno due possibilità: o la classe dei salariati capitalistici è inter- modale, e cioè rivoluzionaria in senso marxiano, o non lo è.

Facciamo la prima ipotesi, e cioè che sia veramente inter-modale. Ebbene, se lo fosse, in duecento anni, soprattutto nei paesi ad alto sviluppo industriale avanzato, si sarebbe mostrata capace di autogoverno politico e di autogestione economica generalizzata, senza bisogno di essere “rappresentata” da un ceto separato di funzionari, politicanti, burocrati ed altri parassiti. Bene, così non è stato. Si dirà che duecento anni non bastano, e ce ne vogliono trecento, quattrocento, e via continuando. Ma qui siamo nel campo della fede, non più della ragione. Per chi vuole continuare a credere e fortificarlo nel dubbio consiglio due teorie, quella francofortese per cui la classe sarebbe di per sé capace di comunismo, ma viene manipolata dal lavaggio del cervello televisivo e dai concorsi a premi, e quella trotzkista per cui la classe sarebbe di per sé capace di comunismo, ma viene sistematicamente ingannata e tradita da astutissimi burocrati che approfittano della scarsità dei beni dovuta all’insufficiente sviluppo delle forze produttive. Personalmente ritengo più scientifica (e non sto affatto scherzando) la teoria dell’imminente avvento del Regno di Dio propiziato dallo Spirito Santo e dalla Verginità di Maria.

Bene, facciamo la seconda ipotesi, e cioè che la classe dei salariati non sia intermodale, e che la sua “rivoluzionarietà” non appartenga alla sua fase matura, ma al contrario alla sua fase iniziale, ancora in buona parte di origine artigiana e contadina, classi la cui cultura era ancora del tutto separata, anche se dominata, dalla cultura prima feudale e poi borghese. Risulta allora chiaro che questa classe non-intermodale deve farsi strutturalmente “rappresentare” da un ceto separato (capi-partito democratici, burocrati socialisti, burocrati comunisti, ecc.).

Ma siccome il ceto è separato proprio per il differenziale di sapere e di potere, risulta del tutto ovvio che questo stesso ceto voglia passare dal possesso temporaneo di questi differenziali di sapere e di potere ad una forma di proprietà permanente di questi stessi differenziali di sapere e di potere, con l’aiuto del diritto privato romano e della common law anglosassone che sono strumenti ideali di stabilizzazione. Chi capisce questo non penserà più che Gorbaciov che pubblicizza con aria ebete la pizza Hut, Eltsin che oscilla ubriaco dopo aver consegnato ad alcuni capitalisti predoni il frutto del lavoro collettivo di tre generazioni di sovietici, ed infine Massimo D’Alema che si pavoneggia ghignando cinicamente accanto al bombardatore americano Clark sono esempi di “tradimento”. Lasciamo questa spiegazione ai babbioni identitari. Chi capisce questo capisce che siamo di fronte ad una maestosa tragedia storica che solo il metodo di Marx, se ben applicato, può interpretare.

Massimo D'Alema con yacht

Massimo D'Alema in vacanza - dal sito Dagospia


E allora? E allora è chiaro che possiamo cominciare a rispondere alla nostra domanda, e cioè se si può rifondare il comunismo in generale e se è opportuno tentare di farlo. Che sia opportuno opporsi alla barbarie capitalistica mi sembra chiaro, e non ho lo spazio per enumerare le decine di argomenti che sostengono questa posizione. Li lascio al lettore, che certo ne conosce già la maggioranza. Ma che questa opposizione alla barbarie capitalistica, che comunque avverrebbe sia che lo vogliamo sia che invece ci fossimo soggettivamente stancati di “militare”, prenda la forma programmatica e propositiva di una vera e propria “rifondazione comunista”, ebbene, questo dipende dal nostro concetto e dalla nostra pratica di comunismo. Il lettore non pretenderà, a questo punto, che io gliela definisca in qualche riga. Chiudiamo su questo punto. Chi dei due è comunque più vicino al problema fra Losurdo e Giuntoli? Voglio espormi. Ritengo tutto sommato che lo sia Giuntoli. Losurdo infatti ritiene che il problema teorico sia di fatto almeno concettualmente risolto, e possiamo continuare come prima, solo con un po’ meno di illusioni utopiche sulla estinzione dello stato. Giuntoli, almeno, lascia concettualmente aperto il problema, e questa è la mossa giusta.


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