L’ultima transizione:

La tragicomica storia romanzata dei rapporti di Fausto Bertinotti con il comunismo ed i veri problemi che ci stanno dietro

I parte

 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve su Fausto Bertinotti e la "non violenza" è stato diviso in sette parti, più un'introduzione.

All'introduzione su Fausto Bertinotti e la non violenza

Alla parte successiva




1. Una breve storia romanzata e senza alcuna pretesa di obiettività del Partito della Rifondazione Comunista (1991-2004)

Il baraccone PCI si sciolse nel novembre 1989 in “tempo reale”, insieme a tutti gli altri baracconi politici del socialismo reale. Come è possibile che solo il PCI si sia sciolto in tempo reale, mentre gli altri baracconi comunisti francese, portoghese, greco, ecc., non lo hanno fatto ed hanno protratto la loro agonia molto più a lungo?

C’è un perché facile come l’uovo di Colombo, che sfugge però a tutti coloro che non applicano il metodo strutturale di Marx e si fermano alle dichiarazioni ideologiche di superficie. La chiave teorica per capire l’intera faccenda è che il PCI era il partito meno filo-sovietico e più simil-sovietico dell’Europa occidentale. Partiti comunisti come quelli francese, portoghese, greco, ecc., erano baracconi politici composti quasi esclusivamente da operai e salariati, e la loro composizione sociale tradizionale e socialmente minoritaria spiega il loro “stalinismo” e il loro “filo-sovietismo”.

Il baraccone italiano era interclassista da tempo, esattamente come la casa-madre PCUS, e lo era diventato soprattutto negli anni Settanta, con il massiccio ingresso di una piccola borghesia dei servizi ad ideologia radicale (nel senso diagnosticato da Augusto Del Noce e rappresentato dalla coppia spinellatrice Pannella-Bonino), il cui scopo era la liberalizzazione del costume assai più che la socializzazione dei mezzi di produzione. PCUS e PCI avevano in comune questa profonda natura interclassista, e dico questo non certo per condannarla (anch’io sono per una forza politica nuova di tipo interclassistico), ma solo per connotare un fatto storico sempre virtuosamente rimosso dai pii custodi della tradizione.

Cade il muro di Berlino e l’eterno bambino Achille Occhetto dichiara in tempo reale il cambio di nome e di natura sociale del partito. Poiché siamo nell’Italia della commedia dell’arte e non nella Germania del dramma barocco e della filosofia classica tedesca questo cambio viene accompagnato da un circo di deliri identitari, ben rappresentato dal film La Cosa del futuro girotondaro Nanni Moretti. Cambiamo per essere ancora più comunisti, il vero comunismo è a Bologna, nessuno ci farà cambiare maaai, ecc.! Il buffonismo, ultimo stadio dello storicismo.

Il dilettante politico Occhetto non capì che ci sarebbe voluta un’operazione chirurgica di due mesi, ed in questo modo si sarebbe forse perso poco. Ma il suo cursus honorum consisteva nell’avere approfittato di un infarto di Alessandro Natta, e da queste origini non c’è da aspettarsi molto. Il dilettante aprì invece una fase di transizione di quattordici mesi (novembre 1989-gennaio 1991), e si aprì allora non certo una discussione razionale, impossibile in un baraccone identitario privato da mezzo secolo di ogni reale dibattito interno che non fosse la caricatura cifrata dei gruppi dirigenti, ma uno psicodramma politico-psicologico di deficienti in preda ad una affabulazione verbale “rivoluzionaria”. Alla fine di questo processo identitario ed affabulatorio si scoprì che era rimasto un relativamente ampio residuo militante con relativa nicchia elettorale. Allora, e solo allora, un gruppo di vecchi ed astuti marpioni politici (Garavini, Cossutta, Libertini, Serri, ecc.) decise di occupare questo spazio. Rifondazione Comunista, non dimentichiamolo mai, nacque con il gruppo dirigente più vecchio dell’intera storia del movimento comunista. Chi non capisce il significato di questo fatto è del tutto irrecuperabile per un dibattito storico razionale.

Intanto il baraccone PCI, nel frattempo divenuto PDS, aveva cambiato logo e ragione sociale, ma restava elettoralmente minoritario rispetto sia alla DC che al PSI. La sua natura profondamente antidemocratica, antiliberale e golpista lo portò però ad aderire al colpo di stato giudiziario extraparlamentare denominato Mani Pulite, che permetteva di spazzare tutti i partiti fondamentali della prima repubblica senza che ci fosse bisogno di vincerli elettoralmente.

Il lettore non creda che in questo modo io aderisca all’interpretazione storica di Silvio Berlusconi. Non è affatto così.



Il venditore rifattosi con un opportuno lifting, l’uomo che ha mandato soldati italiani in sostegno agli assassini americani in Irak, ecc., sostiene che Mani Pulite fu fatta contro di lui dal maligno PCI-PDS-DS. Si tratta di balle, di iperballe e di superballe. Il colpo di Stato giudiziario extraparlamentare denominato Mani Pulite (del tutto indipendentemente dalla irrilevante coscienza soggettiva dei singoli magistrati) non fu ordito dal personale PCI-PDS, che contava come un due di briscola e non avrebbe potuto ordire neppure l’occupazione dei bagni comunali di Rimini, ma fu ordito da direzioni politiche ed economiche ben più “strategiche” (nel senso usato da Gianfranco La Grassa), che dovevano smantellare un sistema politico statalista, assistenzialista, proporzionalista, eccetera, in direzione di un sistema economico fondato sulla degradazione del lavoro salariato in direzione di una sua precarizzazione e flessibilizzazione. Qualunque “marxista” si sarebbe accorto di un processo strutturale tanto lineare. Ma da mezzo secolo il “marxismo” in Italia era in mano a retori, buffoni e ceto universitario lottizzato di “sinistra”.

Intanto Rifondazione, pur essendosi accodata come un cagnolino scemo alle urla populiste di Santoro ed ai lanci di monetine della plebe contro Craxi, demonizzato come il serio colpevole della Corruzione Cinquantennale, aveva anch’essa il bisogno di riposizionarsi. Poiché sembrò che Garavini andasse troppo a “destra”, nel senso di una subalternità eccessiva al baraccone occhettiano PCI-PDS, la “destra” di Magri e la “sinistra” di Cossutta lo golpizzò, chiamando a dirigere Rifondazione un manager esterno del tutto estraneo agli scontri feroci delle cordate interne, e cioè il sindacalista massimalista-keynesiano (Lelio Basso + Riccardo Lombardi) Fausto Bertinotti, in modo che diventasse il testimonial della baracchetta residuale.

Bertinotti prese sul serio la parte di testimonial, e se la giocò con una astuta strategia di promozione nei talk-shows televisivi. In questa post-moderna commedia dell’arte la sua parte fu quella di denunciare i bassi salari e le basse pensioni contrapposti entrambi ai redditi dei ricchi sperperatori. E’ un gioco facilissimo, in cui vincerebbe anche un gorilla ammaestrato. E così nacque Fausto, l’uomo che “ce la racconta giusta” e dice “ai padroni quello che si meritano”.

Il nostro demagogo aveva però un problema. Il suo baraccone era politicamente controllato dall’apparato di Cossutta, e finché non se ne liberava non era possibile per lui perseguire il suo vero scopo, quello della costruzione di un partito post-comunista massimalista di sinistra, che stava nel codice genetico della sua storia personale (Basso+Lombardi+Fiom). Per questo ci vollero due passaggi tattici, il 1995 ed il 1998, in cui riuscì a scaricare prima Magri (1995) e poi Cossutta (1998), insieme a gruppi parlamentari consistenti. Perché ci furono sia nel 1995 sia nel 1998 perdite così consistenti ed emorragie di interi gruppi parlamentari? In proposito avanzo due teorie, peraltro complementari, quella delle “pezze al culo” e quella della “egemonia salottiero-romanesca”.

La teoria delle “pezze al culo”, che sintetizza ampie riflessioni di Leone Trotzky e di Roberto Michels in una forma divulgativa, ci dice che la maggior parte dei deputati di origine di “sinistra” sono poveracci che restano abbacinati sia dai privilegi che dalla visibilità mediatica loro offerti dalla posizione di parlamentare, che li proietta dalla loro posizione precedente di supplenti di scuola media a quella di dirigenti d’impresa di medio livello. Raggiunta questa posizione farebbero di tutto pur di non perderla subito, ed allora si spiega come si scindano da chi non sembra dare loro prospettive di rielezione e si uniscano con apparati più forti in senso elettorale uninominale e maggioritario.

La teoria della “egemonia salottiero-romanesca” è più moderata e dunque certo più gradita ad orecchie pie e timorate della tradizione comunista.

I deputati provenienti da Cosenza, Teramo, Forlì e Cuneo arrivano a Roma, e si trovano subito inseriti in giri mondani gestiti da marpioni politici legati al circo delle maggioranze che “contano”, in cui il “far politica” significa fondamentalmente contribuire a fare e disfare maggioranze parlamentari. In questo modo, e certo in forme largamente inconsapevoli ed in buona fede, questi poveracci passano dalla precedente “rappresentanza” di compagni di base massimalisti e gridatori alla nuova “rappresentanza” di alchimie politiche totalmente parlamentari.

Dopo la doppia perdita (1995 e 1998) dei gruppi con le pezze al culo e di appartenenza salottiero-romanesca Fausto Bertinotti si trova dal 1998 al 2000 in crisi di identità e in caduta libera. Ma alla fine miracolo! Miracolo! Miracolo!

Miracolo. Arriva Seattle, e poi Porto Alegre, e poi Firenze, e poi Parigi, eccetera. Arriva il Movimento dei Movimenti. Si può finalmente iniziare una battaglia culturale e politica per la riconversione della ditta. Seguiamola prima sul versante culturale (DC) e poi su quello politico (PP). La somma, lo abbiamo già detto, è FB=DC/PP.




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