Da idraulico a Torino a prigioniero a Guantánamo

 





Paolo Biondani
Corriere della sera, 9 febbraio 2005

Nota introduttiva di Miguel Martinez

La "distruzione creativa" del mondo - per citare una frase cara ai neocon e in particolare a Michael Ledeen - ha mille aspetti. La creazione dell'Impero tocca veramente tutto.

Alla base, c'è la tempesta travolgente del capitalismo che soffia in ogni casa e ci rende tutti precari, insieme avidi e impauriti.

La tempesta si accompagna agli eserciti che avanzano, ai bombardieri che spianano e - ingranaggi su ingranaggi - anche alle piccole meretrici di Babilonia che torturano.

Però l'angoscia economica e il terrore militare si fondano sulla nostra accettazione del dominio.

Ecco che si produce un vasto gioco con gli immaginari, sia religiosi che laici. Dei cristiani, si sfrutta la paura dell'Islam e del perbenismo; degli ebrei, il timore di un "nuovo antisemitismo"; della sinistra, la paura di immaginari complotti "islamonazicomunisti" e l'ardente bisogno di essere accettati come "riformisti"; ma anche dei musulmani, il desiderio di non essere perseguitati.

Questi gioco stabilisce chi è dentro i rigorosi confini di ciò che è politicamente corretto. In breve esiste la più assoluta libertà, a condizione che non si metta in discussione il sistema economico, quello politico, gli USA o Israele. Pensiamo un momento alla varietà assoluta di opinioni, su temi di portata mondiale, che poteva distinguere trent'anni fa un giornale di sinistra da uno di destra. Uno stava con i vietnamiti, l'altro con gli americani; uno voleva il comunismo, l'altro il capitalismo.

Poi facciamo un confronto con oggi: gli stessi giornali sono litigiosi quanto ieri, ma solo a proposito di alcuni esponenti del teatrino politico italiano. Entrambi vogliono il "libero mercato" (salvo criticare qualche eccesso) e fanno a gara per dimostrare il loro amore per gli Stati Uniti (salvo criticare qualche individuo troppo aggressivo).

Per chi si pone al di fuori di questi nuovi confini, la Creazione Distruttiva prevede sia il linciaggio collettivo e trasversale, sia la violenza. Al cuore di questa violenza, c'è una nuova frontiera, costituita da Guantánamo, che divide l'umanità intera tra i "democratici" - di centrodestra o di centrosinistra poco importa - e i "terroristi".

Il problema di Guantánamo non sono tanto le torture che vi avvengono. Il punto fondamentale è un altro.

Per la prima volta nella storia, si accetta che un unico stato proclami il proprio diritto di rapire chi vuole, in qualunque angolo del mondo, perché sospettato di non amare il dominio di quello stato.

Si accetta che si tenga quella persona in isolamento, senza accuse e senza che si possa difendere, per un periodo di tempo deciso esclusivamente dallo stato stesso.

Il fatto che i detenuti di Guantánamo non siano molti (mentre sono decine e decine di migliaia i detenuti colpevolli di resistenza, in Iraq e in Afghanistan, per non dire in tutto il Medio Oriente) non importa. Solo pochi italiani hanno un cognome che inizia per "X", ma se io faccio una legge che permette che chiunque abbia un cognome che inizia per "X" possa essere picchiato per strada, nego alla radice lo stato di diritto. Perché se si accetta questa eccezione, posso con il tempo aggiungere quelli il cui cognome inizia per "R" e poi per "M"...

Ma lasciamo la parola a Paolo Biondani.




«Io, idraulico a Torino, finito nelle gabbie di Camp X Ray» Aouzar: pregavo e seguivo la Juve. Poi la partenza per la Jihad, le battaglie in Afghanistan e la detenzione nella base-carcere degli Usa

DAI NOSTRI INVIATI

RABAT - Mohammed Aouzar ha 26 anni ma ne dimostra meno. Un fisico esile nascosto da una jalabya celeste, una barba che non riesce a diventare folta, lo sguardo che spesso si perde assieme alla parola. Quando lo avviciniamo sta in guardia. E diffidente, non sembra avere interesse per quello che gli chiediamo. Poi gli mostriamo una foto digitale della sua casa di Torino, del portone, del campanello con il nome del papà. Lì ha vissuto fino all agosto del 2001, quando è partito, assieme ad altri, dall Italia per l Afghanistan, dove è stato catturato. «Sognavo la preghiera, cercavo Dio», è la sua spiegazione per quel viaggio. Ma il «viaggio» ha avuto un altra tappa. Terribile. «Camp X Ray» di Guantanamo, la prigione Usa a Cuba.

Gabbie in ferro, tute arancione e tutte le privazioni possibili. Della sua avventura conserva molte ferite. Sulla pelle, con due proiettili nella gamba. Nella mente, logorata dal continuo pressing degli interrogatori americani. E provato e disorientato. Anche perché il suo «viaggio» non è finito. Da mesi viene giudicato da un tribunale marocchino per «associazione criminosa»: non è terrorismo, però le accuse riguardano i suoi possibili (e comunque datati) rapporti con le reti integraliste. I suoi ricordi partono da Torino. Prima sfocati, senza ordine, quindi più nitidi. La scuola tecnica, gli «studi in informatica», i corsi «per diventare tornitore», un buon lavoro da idraulico. «Stavo bene - dice -. Mi divertivo, avevo una vita normale. Ovviamente scandita dalle preghiere». Passatempi? «Mi piace il calcio, guardavo le partite alla tv. Sono stato anche allo stadio, una volta: mi piaceva la Juventus». Piccole passioni terrene che non hanno disturbato la vocazione religiosa.

«Facevo parte dei tabligh, i missionari dell Islam. Andavamo in giro per Torino e Milano tentando di riportare sulla giusta strada gli immigrati che avevano brutte abitudini. Dicevamo loro: basta alcol, non fumate hashish, non fate violenza».
I suoi pellegrinaggi lo hanno portato spesso anche a Verona dove «ci raccoglievamo in dieci», come fanno i tabligh, «e pregavamo dentro un garage. Tutto qui».

ungo i sentieri della predicazione, Aouzar alla fine degli anni 90 raggiunge l India e il Pakistan, Paesi dove i tabligh sono molto radicati. Quindi torna in Italia, dove ha molti amici. E tra loro non mancano personaggi vicini all integralismo, anche armato. Nell estate del 2001 Aouzar è pronto per una nuova missione. Destinazione Kabul. Più tardi, nei primi interrogatori dopo la cattura, dirà che erano diverse le ragioni della sua partenza: «Lo spirito di ribellione, la voglia di lasciare casa, il desiderio di andare a combattere con un amico tunisino». E ai giudici marocchini, ora, ne aggiunge una meno bellicosa: «Volevo cercare lavoro in Afghanistan, avrei voluto vivere lì per sempre».

Anche il fratello Redouane, che abita sempre a Torino, prova a partire, ma non ci riesce, perché non ottiene il visto. Il percorso di Aouzar è quello di molti jihadisti reclutati in Europa. Prima tappa a Teheran, una sosta nella città santa di Mashad, poi il passaggio del confine sino ad Herat, nell Afghanistan occidentale. Prima dell 11 settembre l'afflusso di volontari è continuo. Tunisini, egiziani, algerini, marocchini convinti a partire dai cosiddetti «collettori».

Personaggi di spicco con i contatti giusti in Afghanistan, che possono fornire i documenti e il denaro per il viaggio. Scrutano tra i fedeli delle moschee in cerca di giovani combattenti: la carne da cannone per il fronte qaedista.

Aouzar finisce nella rete tesa dal «reclutatore» Remadna, arrestato a Milano nel novembre 2001 e condannato in appello a otto anni.

Quando gli americani e l Alleanza del Nord attaccano il regime talebano, centinaia di mujahidin vengono spostati in un disperato tentativo di resistenza. Aouzar - dicono gli atti della polizia italiana - combatte a Kunduz e viene catturato. Con altri finisce nella famigerata prigione di Qalaj-Jangi a Mazar El Sharif. E il regno del signore della guerra Rashid Dostum.

A fine novembre esplode una rivolta sanguinosa, due agenti segreti Usa vengono ammazzati mentre interrogano i prigionieri. La repressione scatenata da Dostum è spietata. Muoiono in tanti, Aouzar rimane «ferito a una gamba», come ammette ora ai giudici di Rabat. Seguono settimane di trasferimenti nelle basi-carcere create dagli americani per rinchiudervi i talebani sconfitti.

Subisce nuovi interrogatori, vogliono sapere come è arrivato in Afghanistan, se è legato ad Al Qaeda. Gli mettono una tuta blu da meccanico, resta quasi sempre bendato e deve rispondere a un infinità di domande. Per gli americani non basta. Lo infilano nel ventre di un gigantesco aereo militare C141 e lo trasferiscono a migliaia di chilometri di distanza. Nel campo di detenzione di Guantanamo.

Aouzar viene rilasciato dopo tre anni e mezzo. La sua testimonianza è uguale a quelle già raccontate in queste settimane da chi è riemerso da quelle gabbie. Oltre alle violenze fisiche che si vergogna a descrivere («ci picchiavano e ci umiliavano», si limita a bisbigliare), colpiscono gli effetti della pressione psicologica sui prigionieri. Oggi sembrano pugili suonati.

Un inglese di origine africana racconta un particolare inedito di quelle «sedute»:

«La temperatura nella stanza degli interrogatori era sempre diversa. Un giorno era gelida, congelavi e la tuta arancione non bastava a proteggerti. Un altra volta era rovente come un forno. E non potevi metterti o toglierti nessun vestito. Davanti all ufficiale, non potevi più muoverti».
Durante la detenzione al «Camp X Ray», Aouzar vede anche investigatori italiani. «Alla fine dell interrogatorio mi hanno detto che per loro ero pulito», sostiene il giovane. «Se allora sognavo l Afghanistan, oggi mi piacerebbe tornare in Italia, dove c'è la mia famiglia». Un esile speranza per chiudere definitivamente il suo viaggio di andata e ritorno dall inferno.



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