Stati Uniti
In missione per conto di Dio
 



Stati uniti, in missione per conto di Dio

Francesco Dragosei (da Il Manifesto) Tuesday August 19, 2003 at 12:45 PM




Sono storici, saggisti e giornalisti i nuovi profeti del neodarwinismo tra gli stati. Nei loro scritti annunciano l'avvento trionfale, in America e nel mondo, della legge del più forte. Da Robert Kagan a Charles Krauthammer, l'affermarsi di una euforia americocentrica che riesce persino a speculare sull'11 settembre.

Fratello più giovane del già affermato neodarwinismo economico-sociale entro gli stati, arriva adesso il neodarwinismo tra gli stati. Suoi profeti sono alcuni intellettuali che con i loro scritti danno linfa e dignità teorica alla «brutalità della prassi» dell'attuale neoconservatorismo americano. Intellettuali talora di destra, talaltra più insidiosamente no, che scrivono magari sulle colonne del Washington Post. Storici, saggisti, giornalisti, che nell'annunciare l'avvento trionfale, in America e nel mondo, della legge del più forte e più adatto alla sopravvivenza, hanno virato di 180 gradi rispetto a quegli storici e saggisti che un quindici anni fa dibattevano, addirittura, su un possibile tramonto dell'America. Corifeo dei neodarwinisti è Robert Kagan, col suo Paradiso e potere, America e Europa nel nuovo ordine mondiale (libro edito da Mondadori di cui ha già scritto su queste pagine Luigi Cavallaro il 7 maggio). L'ormai celebre saggio è in realtà uno smilzo libretto tirato su velocemente da un fortunato articolo uscito sulla rivista «Policy Review» e basato su un bagaglio documentale risibile, fatto di riferimenti bibliografici quasi nulli, notizie di notizie, relazioncine di convegni. Ciononostante, esso è divenuto il massimo esempio, il manifesto quasi, della rampante euforia americocentrica e neodarwinista che, dopo lo sbriciolarsi dello spauracchio dell'Urss, ha gradualmente ma inesorabilmente preso alla testa molti americani.

La «teoria» di Kagan è molto semplice. L'Europa, vecchia ed emasculata dopo i bagni di sangue delle guerre mondiali, nonché sempre più invidiosa della giovane e forte America, desidera ormai solo di castrarne la potenza militare imponendole subdolamente la sua molle cultura della negoziazione e della pace: cultura ereditata - l'autore non si stanca di ripetere per nobilitare la sua tesi (senza però sognarsi di citare direttamente una sola opera di Kant o Hobbes) - dall'ideale kantiano della pace perpetua, mentre a Hobbes si rifà viceversa la cultura americana della guerra. Dunque, l'unica via per l'America è di infischiarsene della subdola politica di pacificazione dell'Europa continuando a menare i colpi di clava del più forte, prosegue Kagan senza mai essere sfiorato dal dubbio che il rifiuto del mondo hobbesiano possa essere una scelta di civiltà, una questione di evoluzione dei rapporti tra le nazioni. Sentendosi tutt'al più in obbligo di rassicurarci che le ragioni dell'America non sono ciecamente egoistiche ma sollecite anche del bene dell'Europa e del mondo, in quanto volte sempre e comunque all'«avanzamento dei principi della civiltà e dell'ordine mondiale liberali». Secondo cioè una classica autoinvestitura dell'America quale unica interprete e garante del progresso, della giustizia planetaria e della pace. Quel sogno di stato perfetto, padrone e tutore del mondo, a suo tempo divinato - ci ricorda Kagan - da un Reinhold Niebuhr («la responsabilità americana di risolvere il problema del mondo»). O da un Benjamin Franklin («la causa dell'America è la causa di tutta l'umanità»). O anche - aggiungeremmo noi facendo un salto nella Russia degli anni Venti - dal «Benefattore», il bieco-mellifluo capo assoluto dello Stato che nel romanzo di Zamjàtin Noi paternalisticamente spiegava come fosse dovere dello stato perfetto «piegare al benefico giogo della ragione gli esseri ignoti che abitano sugli altri pianeti...» anche «se essi non comprenderanno che noi portiamo loro la felicità matematicamente esatta...» [anche] «costringendoli ad essere felici».

In un lungo articolo apparso sul numero 70 di «The National Interest» (e ripreso in Italia da «Aspenia») il giornalista del Washington Post, e premio Pulitzer, Charles Krauthammer, dopo aver ricordato che già nel lontano 1990, in controtendenza con le previsioni sul declino degli Stati Uniti, egli aveva preconizzato un futuro unipolarismo americano, rileva orgoglioso che non solo oggi «la spesa militare americana supera quella dei successivi venti paesi messi insieme» senza alcun segno di declino, ma che il primato è, oltre che militare, economico, tecnologico, linguistico, culturale. Il suo trionfalismo, secondo una tipica capacità americana di trasformare una sconfitta in una contronarrazione ottimistica (una capacità che chiameremmo «elaborazione euforica del lutto»), si nutre persino della poco trionfale tragedia dell'11 settembre, trasformando con una magia alchemica la più grave ferita mai inferta al suolo americano in recuperata invulnerabilità dell'America. «Se non ci fosse stato l'11 settembre», egli osserva con un qualche cinismo, «il gigante sarebbe rimasto addormentato. [...] Grazie alla dimostrazione delle sue capacità di recupero [...] il senso di invulnerabilità della popolazione ha assunto una nuova dimensione». Ancora dal fatidico 11 settembre, Krauthammer si ricava inoltre l'alibi per dare legittimazione morale alla nuova non osservanza americana del diritto internazionale e alla guerra preventiva: «l'11 settembre ha catalizzato la consapevolezza [...] che il primo compito degli Usa è di garantirsi la protezione contro tali armi». Dopo avere quindi puntato il dito sul bieco disegno dei lillipuziani europei di legare il Gulliver America «con una miriade di lacci che riducano la sua potenza», Krauthammer conclude che, in fondo, gli Usa, perseguendo i propri interessi stanno perseguendo anche quelli degli ingrati europei, specialmente per quanto riguarda la pace nel mondo. Nel sostanzioso e documentato Carnage and Culture («Carneficina e cultura»), il noto storico militare Victor Davis Hanson la prende da lontano, partendo addirittura dalla battaglia di Salamina. Ma proprio per la sua serietà scientifica tale libro costituisce, rispetto al libretto di Kagan e al saggio di Krauthammer, una ben più insidiosa e affilata arma per lo schieramento neodarwinista. Analizzando battaglie epocali come Salamina (480 a.C.), Gaugamela (331 a.C.), Canne (216 a. C.), Poitiers (732), Tenochtitlàn (1520), Midway (1942), Tet (1968), Hanson dà corpo alla teoria che l'Occidente ha un lunghissimo, misconosciuto primato di micidialità bellica («brutal western lethality», per dirla con le sue parole) che si alimenta direttamente dal suo primato culturale. Sia i greci che i romani, i macedoni di Alessandro, gli spagnoli di Cortés, gli americani nel Pacifico, avrebbero ottenuto le loro schiaccianti vittorie sui non occidentali («non-westerners»: praticamente neri , gialli e tutti gli altri di pelle non perfettamente bianca) non tanto per superiorità organizzativa e tecnologica (ad esempio la polvere da sparo), quanto per un plusvalore civile, fatto di senso della disciplina, democrazia, libertà, spirito di iniziativa e individualismo. Quanto alle inevitabili pagine buie dell'Occidente, anche Hanson, giovandosi di quella capacità di elaborazione euforica del lutto che abbiamo già visto in Krauthammer, arriva a trasformare le sconfitte dell'Occidente (dalla battaglia di Canne a Wounded Knee, all'offensiva del Tet) in sostanziali vittorie, in quanto i non-westerners hanno vinto solo perché si sono appropriati delle armi, delle tecnologie, delle idee dell'Occidente. Il gioco è fatto. Prolungando e stiracchiando un poco la sua teoria sui trionfi dell'Occidente, Hanson arriva a farvi ricadere anche la sconfitta americana in Vietnam, trasformandola in vittoria.La battaglia di Khesanh, ad esempio, egli ci dice con malcelato orgoglio, vide una tale superiorità statunitense da registrare un incredibilmente basso numero di morti americani (uno ogni cinquanta nordvietnamiti): non lontano addirittura da quello degli spagnoli di Cortés con gli Aztechi. Peccato solo, si rammarica, che la vittoria americana sia stata poi autolesionisticamente trasformata in sconfitta dall'isterismo e dalle distorsioni dei giornali, della tv, dei liberal americani.

Così facendo, oltre a riscattare e santificare il Vietnam (sempre, si badi, con termini deprecatori quali «horrendous slaughter», orrendo massacro, «blood bath», bagno di sangue, e simili), Hanson salda tacitamente il secolare primato bellico e civile dell'Occidente all'attuale superiorità militare (e civile) degli Stati Uniti. Inoltre, il suo libro si inscrive senza sembrarlo nel gran numero delle rinarrazioni che da tempo stanno portando fuori dal depressivo cono d'ombra del Vietnam questo paese che - nonostante le sue frequenti dichiarazioni contrarie - continua a patire ancora e sempre un'intolleranza genetica alla sconfitta, al fallimento, al lutto. Rinarrazioni, per capirci, come la celebre saga nazionalpopolare di Rambo, col suo mito del tradimento dell'eroico soldato americano pugnalato alle spalle dalle odiose burocrazie politico-militari-massmediologiche.

Chiudiamo con una voce che se certamente non appartiene a questo sussulto neodarwinista, provenendo da uno dei periodici più pensosi e autocritici d'America, in qualche modo però a tale sussulto contribuisce con la sua sotterranea adesione ai destini trionfali della Repubblica. Si tratta di un articolo apparso lo scorso maggio sull'«Atlantic Monthly» per la penna del suo correspondent David Brooks, autore, tra l'altro di una recente, esaurientissima cover story (12 fitte pagine) sulle differenze tra red and blue America. Nell'articolo Brooks, rifacendosi a Democratic Vistas di Walt Whitman (1871) onde ricordare come il grande poeta - diversamente dagli ottusi antiamericanisti di oggi - avesse ben capito che l'America è un paese differenziato e vario, fatto di uomini buoni e meno buoni, e che la sua forza consiste proprio nel non deflettere dalla sua «storica missione» di guida del mondo anche nei momenti di leadership mediocri (chiara l'allusione di Woods a Bush), si lascia sorprendentemente prendere da fremiti di consonanza con i noti ardori nazionalistici e messianici del poeta newyorkese. «Whitman», egli ricorda con nostalgia e biasimo agli americani, «aveva un sottile senso dell'unicità della storica missione ('America's unique historical mission') assegnata al Paese da Dio o dal destino onde diffondere la democrazia e promuovere la libertà umana nel mondo». Così facendo, Brooks non solo smentisce la appena enunciata differenziazione dell'America ma dà inavvertitamente una mano ai vari Kagan, Krauthammer, Haston. Porta forse, anche lui, un sia pur involontario contributo a quella rottura del «patto» e della parità democratica tra le nazioni in nome d'un resuscitato affidamento planetario americano legittimato dalla sua strapotenza militare e dal ritrovato senso messianico.





questo articolo è tratto da un elenco di documenti riguardanti i "neoconservatori" o "neocon" americani presenti sul sito di Fisica/Mente. Non rispecchia quindi necessariamente l'opinione del curatore del sito Kelebek. Fare clic qui per la pagina principale di questa parte del sito, dedicata ai neoconservatori.




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