CHI L'HA DETTO?

"Naturalmente la gente comune non vuole la guerra: né in Russia, né in Inghilterra, né in Germania. Tutto quello che dovete fare è dir loro che sono attaccati, e denunciare i pacifisti per mancanza di patriottismo in quanto espongono il Paese al pericolo" 
(Hermann Göring, gerarca nazista)

 

CHI L'HA DETTO?

"La guerra all’Iraq non comporta un problema morale. La terza guerra mondiale è necessaria per occidentalizzare il terzo e quarto mondo"
Gustavo Selva, parlamentare di An

 

 

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Lista di paesi bombardati dagli USA dopo la seconda Guerra Mondiale. 

Cina: 1945-46
Corea: 1950-53
Cina: 1950-53
Guatemala: 1954
Indonesia: 1958
Cuba: 1959-60
Guatemala: 1960
Congo: 1964
Perù: 1965
Laos: 1964-73
Vietnam: 1961-73
Cambogia: 1969-70
Guatemala: 1967-69
Granada: 1983
Libia: 1986
El Salvador: 1980
Nicaragua: 1980
Panama: 1989
Irak: 1991-99
Soudan: 1998
Afghanistan: 1998
Yugoslavia: 1999

In quanti di questi stati i bombardamenti hanno fatto sorgere un governo democratico e rispettoso dei Diritti dell'Uomo?

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Da un intervento alla Regione Emilia di un consigliere di Rifondazione Comunista

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La domanda a cui dovremmo rispondere è la seguente. La reazione americana all’attacco terroristico dell’11 settembre è la risposta agli attentati terroristici oppure è una accelerazione esponenziale – favorita dall’attentato terroristico – di una linea da tempo in gestazione ?

    Assai prima dell’11 settembre, l’amministrazione americana aveva reso evidente il proprio obbiettivo strategico in campo internazionale: vincere la competizione globale economica e politica del 21° secolo, assicurare agli Stati Uniti una egemonia mondiale incontrastata, con una schiacciante superiorità tecnologico-militare, con l’uso spregiudicato e unilaterale di tale primato e, se necessario, con il ricorso alla guerra.

    Questa "strategia del primato" è stata elaborata dal Pentagono già nel 1992 in un documento, Defense Policy Guidance 1992-1994, all’indomani della guerra del Golfo. Il documento esortava decisamente a (cito tesualmente) "impedire a qualsiasi potenza ostile il dominio di regioni le cui risorse consentirebbero di accedere allo status di grande potenza", a "dissuadere i paesi industriali avanzati da qualsiasi tentazione che miri a contestare la nostra leadership" e a "impedire l’ascesa di un futuro concorrente globale". Queste tesi furono successivamente riprese ed elaborate in un libro di Brezinski, "La grande scacchiera", tradotto in italiano dalla Longanesi, dove si precisa che il cuore della "partita per la supremazia globale è l’Eurasia, il continente più grande del globo, dove vive il 75% della popolazione mondiale ed è concentrata gran parte della ricchezza del mondo, sia industriale che nel sottosuolo, che incide per il 60% sul Pil mondiale e per tre/quarti sulle risorse energetiche conosciute. Il noto quotidiano italiano "Il Foglio", il 26 settembre scorso, citando uno dei maggiori esperti di geopolitica asiatica, Alessandro Grossano, titola: "L’Eurasia è il cuore della Terra, chi la prende possiede il mondo".

    Per quale motivo gli Stati Uniti attribuiscono un peso così determinante alla supremazia militare nella competizione globale del 21° secolo ?

    Nel 1945, all’indomani della seconda guerra mondiale, l’economia americana incideva per il 50% sull’intero Pil mondiale. Oggi tale incidenza americana si è dimezzata, giungendo al 25%, quella dei paesi dell’Unione Europea è cresciuta a un livello equivalente, il 25%, mentre il solo Giappone si colloca all’11%. Secondo uno studio recente dell’Ocse, nel 2020 le tre maggiori entità del mondo capitalistico (Usa, Giappone e Unione europea) che oggi esprimono oltre il 60% del Pil mondiale, scenderebbero al 28% (gli Usa all’11%, il Giappone al 5%, l’Ue al 12%, la cosiddetta triade). Contestualmente, quelle che vengono considerate le cinque economie regionali emergenti (Cina, Russia, India, Brasile, Indonesia) – che oggi incidono complessivamente per il 20% sul Pil mondiale – crescerebbero fino al 35% (rispetto al 28 della triade).

    Il quadro è dunque di un costante, inesorabile declino economico degli Stati Uniti non solo rispetto ad atri paesi emergenti ma anche rispetto ai tradizionali concorrenti del mondo capitalistico. Si comprende assai bene la ragione strategica che induce la parte più aggressiva dello Stato americano a fronteggiare e bilanciare il ridimensionamento della propria influenza sull’economia mondiale con il perseguimento di una schiacciante superiorità militare. Ha sintetizzato bene Giulietto Chiesa in un articolo del 25 settembre scorso: "Per preservare il potere e la ricchezza di cui dispongono, gli Stati Uniti sono pronti ad andare ad una guerra contro i restanti cinque sesti dell’umanità".

    Dunque se vogliamo evitare di fare della propaganda e vogliamo invece elevare il nostro dibattito politico, dobbiamo riconoscere che è in questa politica imperialistica degli Stati Uniti d’America che risiedono le cause vere della guerra in corso e da qui vengono i pericoli non solo di una guerra regionale ma persino di una nuova guerra mondiale.

    Per questo motivo dobbiamo non solo fermare i bombardamenti in corso ma anche impedire lo scatenamento di una nuova guerra mondiale. E questo si può fare, in questa fase storica, costruendo un mondo multipolare e dando i poteri all’ONU per essere l’unico strumento di risoluzione delle controversie internazionali.

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E' necessaria una soluzione politica, non militare
A Political, Not a Military Solution is required
 

Tariq Ali
 

Qualche anno fa, durante un viaggio in Pakistan, parlai con un ex-generale a proposito dei guerriglieri islamici presenti in quella regione. Gli domandai perché questa gente, che era stata ben felice di ricevere fondi e armi dagli Stati Uniti all'epoca della guerra fredda, all'improvviso fosse diventata violentemente anti-americana. Mi spiegò che non era la sola. Molti ufficiali pakistani che avevano servito gli USA lealmente fin dal 1951 si sentivano umiliati per l'indifferenza di Washington.

 


 

  

 

 

 


"Il Pakistan è stato il preservativo che serviva agli Americani per penetrare in Afghanistan", mi disse. "Abbiamo assolto la nostra funzione e ora loro pensano di poterci semplicemente buttare nel cesso e tirare lo sciacquone".

Il vecchio preservativo è stato ripescato per usarlo ancora una volta, ma funzionerà? La nuova 'alleanza contro il terrorismo' ha bisogno dei servizi dell'esercito pakistano, ma il generale Musharraf dovrà essere estremamente cauto. Un impegno troppo forte al fianco di Washington potrebbe portare alla guerra civile in Pakistan e spaccare le forze armate. Sono cambiate molte cose negli ultimi due decenni, ma le ironie della storia continuano a proliferare.

In Pakistan la forza dell'islamismo deriva più dalla politica statale che dall'appoggio popolare. La supremazia del fondamentalismo religioso è il retaggio di un precedente dittatore militare, il generale Zia-ul-Haq, che era stato spalleggiato fortemente da Washington e Londra durante gli 11 anni del suo regime autoritario. Durante la sua dittatura (1977-89) venne creata una rete di madrassah (scuole religiose), finanziate dal regime saudita.

Ai bambini, che in seguito furono mandati a combattere come Mujahiddin in Afghanistan, insegnarono a eliminare ogni dubbio. L'unica verità è la verità divina. Chiunque si ribelli all'imam si ribella ad Allah. Le scuole madrassah avevano un unico scopo: la produzione di fanatici nel nome di un tetro cosmopolitismo islamico. Per imparare l'abc i bambini dovevano ripetere che la lettera Urdu jeem sta per 'jihad' (guerra santa); tay per 'tope' (cannone), kaaf per kalashnikov e khay per 'khoon' (sangue).

2500 scuole madrassah produssero un raccolto di 225'000 fanatici, pronti a uccidere e morire per la fede quando i loro leader religiosi lo pretendono. Mandati al di là del confine dall'esercito pakistano, furono impiegati per combattere altri Musulmani, i quali, gli venne detto, non erano veri Musulmani. Il credo dei Talebani è un'aberrazione ultra-settaria dell'islam, ispirata dalla setta Wahhabi che regna in Arabia Saudita. L'inflessibilità dei Mullah afgani è stata condannata dalle autorità religiose sunnite di al-Azhar al Cairo e dai teologi sciiti a Qom come un disonore per il Profeta.

Tuttavia i Talebani non sarebbero riusciti a impadronirsi di Kabul soltanto grazie al loro zelo religioso. Sono stati armati e comandati da 'volontari' dell'esercito pakistano. Se Islamabad decidesse di chiudere la spina, il regime talebano potrebbe essere rimosso, ma non senza seri problemi. La vittoria a Kabul è ritenuto l'unico trionfo delle forze armate pakistane.

A tutt'oggi, l'ex segretario di stato USA Zbigniew Brezinski rimane ostinatamente della sua opinione: "Cosa è stato più importante nel corso della storia mondiale?" chiede con più di una punta d'irritazione, "i Talebani o la caduta dell'Impero Sovietico? Un paio di Musulmani esaltati o la liberazione dell'Europa centrale e la fine della guerra fredda?"

Se le regole di Hollywood richiedono una guerra rapida e dura contro il nuovo nemico, allora il Cesare americano farà bene a non insistere per avere legioni pakistane. Le conseguenze potrebbero essere tremende: una guerra civile brutale e atroce, causa di ulteriore amarezza e stimolo a nuovi atti di terrorismo individuale. Islamabad farà di tutto per impedire una spedizione militare in Afghanistan: ci sono soldati, piloti e ufficiali pakistani a Kabul, Bagram e in altre basi. Quali saranno i loro ordini questa volta, e li osserveranno? E' molto più probabile che Osama bin Laden venga sacrificato nell'interesse della causa e il suo corpo, vivo o morto, consegnato a suoi precedenti datori di lavoro a Washington. Ma sarà sufficiente?

L'unica vera soluzione è quella politica. E' necessario rimuovere le cause dello scontento. E' la disperazione che alimenta il fanatismo, e la disperazione è il risultato della politica di Washington in Medio Oriente e nel mondo. La retorica ortodossa dei fedeli lacchè, cronisti e cortigiani del regime di Washington è esemplificata dall'assistente personale per gli affari esteri di Tony Blair, l'ex-diplomatico Robert Cooper, che scrive apertamente: "Dobbiamo abituarci all'idea di doppi standard". Il principio alla base di questo cinismo è: puniremo i crimini dei nostri nemici e ricompenseremo i crimini dei nostri amici. Ma questo non è forse preferibile all'impunità universale? La risposta è semplice: questo metodo di 'punire' non riduce ma produce la criminalità, e la responsabilità è di chi lo applica. La guerra del Golfo e quella nei Balcani sono due esempi tipici di come grazie a una percezione selettiva vengano staccati assegni morali in bianco. Israele può ignorare le risoluzioni dell'ONU in totale impunità, l'India può tiranneggiare il Kashmir, la Russia radere al suolo Grozny, ma è l'Iraq quello che dev'essere punito e sono i Palestinesi quelli che continuano a soffrire.

Cooper continua: "Un consiglio agli stati post-moderni: accettate che la necessità di intervenire negli stati pre-moderni è un dato di fatto. Tali interventi potranno non risolvere i problemi, ma possono placare le coscienze. E non necessariamente sono peggiori per questo". Provi a spiegarlo ai sopravvissuti di New York e Washington.

Negli Stati Uniti sta crescendo un'esaltazione frenetica. I suoi ideologi parlano di questo come di un attacco alla 'civiltà', ma che tipo di civiltà è quella che ragiona in termini di vendetta di sangue? Negli ultimi sessant'anni e più gli Stati Uniti hanno rovesciato leader democratici, bombardato paesi in tre continenti, usato armi nucleari contro civili giapponesi, ma non hanno mai saputo cosa si provi nell'avere le proprie città sotto attacco. Ora lo sanno. Verso le vittime dell'attacco e i loro congiunti non si può che provare la più profonda solidarietà e compassione, come verso tutte le persone che il governo degli Stati Unti ha sulla coscienza. Ma pensare che in qualche modo una vita americana valga più di quella di uno Jugoslavo, un Vietnamita, un Coreano, un Giapponese, un Palestinese, un abitante del Ruanda... no, questo è inaccettabile.

 

 


 

Da Il Manifesto,  11 luglio 1999

A Political, Not a Military Solution is requiredNato, dopo la guerra in Kosovo, aggrega i paesi turcofoni e anti-russi

- FABRIZIO VIELMINI * -

é passata inosservata nella stampa nazionale degli ultimi giorni una dichiarazione del ministro della Difesa greco Apostolos-Athanasios Tsokhatzopoulos riguardo un possibile risvolto militare del vertice trilaterale fra il suo paese l'Iran e l'Armenia, che si terrà ad Atene domani, 12 luglio. Tale ipotesi - che ha sollevato il panico fra gli ultrà dell'atlantismo - subito rientrata in seguito alle smentite ufficiali della diplomazia greca ed armena. La boutade del ministro greco è comunque servita ad evidenziare una relazione in via di consolidamento - fra i tre paesi negli ultimi due anni si sono susseguiti numerosi incontri, anche ministeriali, che hanno approfondito la cooperazione economica e commerciale, costituito commissioni congiunte nei sui trasporti, servizi postali, industria del turismo e tecnologia. Solo apparentemente quest'asse trilaterale può apparire paradossale. Esso costituisce al contrario un portato quasi automatico dell'assetto delle relazioni internazionali fuoriscite dall'aggressione della Nato alla Jugoslavija.

Dal punto di vista greco in particolare le ragioni alla base dell'intesa appaiono perfettamente logiche. In seguito all'aggressione euro-anglo-americana, Atene si ritrova confinante con una Grande Albania che la Turchia sta strutturando in modo che diventi il braccio settentrionale di una tenaglia pronta a chiudersi sui greci - la Turchia partecipa all'ammodernamento della base navale di Pasaliman, ufficiali turchi insegnano all'Accademia navale di Valona, incursori dei reparti d'élite di Ankara addestrano la Guardia Repubblicana albanese, mentre il gen. D. Bak, Alto responsabile della logistica turca, ha dichiarato il 18 giugno in un incontro con lo Stato maggiore albanese che che la coperazione militare con Tirana resta fra le priorità di Ankara (per citare i soli fatti divenuti di dominio pubblico).

Il narco-stato Albania

Bisogna inoltre considerare come Stati Uniti e grande capitale europeo favoriscano il potenziamento del narco-stato albanese affinchè divenga uno dei terminali occidentali del grande corridoio di trasporti ed oleodotti conosciuto come "via della Seta del XXI secolo". Ora, da tale azzardata operazione geo-economica l'economia greca non ricaverà alcun vantaggio rimanendone totalmente bypassata.

Già all'alba della dissoluzione dell'Unione Sovietica, la nuova posizione geopolitica dell'Armenia aveva attirato l'attenzione della Grecia (un attaché militare di Atene è presente a Erevan dal 1992, mentre dal 1996 un accordo di cooperazione militare unisce i due paesi). Ogni intesa fra Iran e Grecia costituisce musica per le orecchie dell'Armenia: il portato automatico di tali intese è l'aumento del valore strategico di Erevan che, oltre ad essere un elemento fondamentale della politica estera russa, diviene lo snodo necessario dei contatti fra Iran ed Europa. Per gli armeni è poi fondamentale premunirsi da che il contenzioso con l'Azerbaijan - tappa fondamentale della "via della seta" e beniamino di Washington ed Ankara - nel Nagorno-Karabakh, sempre aperto e sanguinoso dall'inizio del decennio, non venga utilizzata da turchi ed americani per qualche bombardamento "umanitario" nel Caucaso.

Infine dal punto di vista di Tehran, l'accordo permette al paese di ammorbidire il proprio isolamento internazionale e di sporgersi in direzione di Bruxelles nella speranza che anche il resto dell'Europa riveda la posizione nei suoi confronti.

é poi interessante notare come i tre paesi abbiano cercato di rendere partecipe della loro intesa anche la Georgia. Tuttavia, l'oligarchia di Shevarnadze è per il momento fermamente intenzionata a trasformare il paese in un vassallo di Washington attraverso il cosidetto blocco regionale del "GUUAM" - acronimo delle iniziali dei suoi partecipanti Ukraina, Uzbekistan, Azerbaijan e Moldavia.

La scacchiera eurasiatica

Insieme ad etno-nazionalisti, islamisti e narcotrafficanti, tali stati sono le principali pedine Usa sulla "grande scacchiera" eurasiatica teorizzata da Zbigniew Brzezinski (già consigliere di Kissinger, ed attuale maitre-à-penser della geopolitica angloamericana). Nella visione di Brezinski, sempre di gran voga al dipartimento di Stato, qualsiasi mezzo è giustificato dall'esigenza vitale del controllo della grande massa continentale fra Europa e Pacifico da perte dell""ultimo impero universale". A tal scopo Brezinski ha riunito gli autocrati alla testa dei citati stati a margine del summit Nato di Washington. Sotto l'elegante paravento della "via della seta", l'oggetto delle discussioni è stato come spiazzare completamente la Russia dai suoi interessi vitali in Eurasia.

Oltre che una sfida diretta all'arroganza della Nato, l'intesa fra Armenia, Iran e Grecia riflette la presa di coscienza dei tre stati, tradizionali alleati dei russi, delle conseguenze derivanti dal sucesso di tali manovre. Tali rialinneamenti non hanno per niente l'aria di poter passare in modo indolore ed è su questo piano che dobbiamo misurare gli effetti della nuova strategia americana in Eurpaa, altrettanto perniciosi ed interconnessi al vaso di Pandora delle rivendicazioni etniche susseguite alla secessione de facto del Kosovo. Completamente sfalsata dal tiro incrociato delle lobbies, la politica Usa crea una serie di distorsioni che retroagiscono sui propri progetti.

Innanzi a ciò i primi a mobilitarsi sono i grandi stati multietnici quali l'Iran - senza dimenticare Cina, India e Russia - sempre più minacciati dal nuovo scenario di proliferazione dei micronazionalismi e degli estremismi religiosi. Ne risultano queste nuove ed ardite alleanze che, al di là della forte eterogeneità, cercano disperatamente di stabilizzare il quadro regionale.: Grecia ed Armenia comprendono perfettamente che la politica estera iraniana ha da tempo saltato il fosso dell'attivismo islamista per posizionarsi su una visione pragmatica e razionale, attenta agli interessi nazionali.

A margine della "nuova via della Seta" converrebbe infine interrogarsi su quali vantaggi l'Europa dei mercanti, sempre più incapace di vedere ciò che la distrugge, pensi di ricavare dall'affidare l'approvvigionamento delle prprie risorse ad una nebulosa di stati para-fascisti, mafie etniche e narcotrafficanti, oltretutto totalmente antieconomico in virtù del percorso tortuoso inframmezzato. Se tutto ciò può essere considerato normale da parte di una nazione che ha costruito la propria posizione mondiale sulle aggressioni ed il gangsterismo, dovrebbe al contrario provocare qualche reazione più consistente in un'Europa sempre più "discarica" di questo degrado criminale.

* Esperto di Asia centrale dell'Observatoire Géopolitique des drogues, Dottorato di ricerca presso l'EHESS (Centro di storia del mondo turco), di Parigi. Collaboratore di "NarcoMafie" e "LiMes".

 

 

 

La guerra

linea red

La "grande scacchiera" e la guerra della Nato

Fausto Sorini

Liberazione 5 giugno 1999

"La grande scacchiera" è il titolo di un recensissimo libro di Zbigniew Brzezinski, già consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter, una delle teste pensanti della politica estera degli Stati Uniti. Esso espone, con esemplare chiarezza e senza infingimenti "umanitari", il quadro strategico globale entro cui collocare e comprendere le ragioni essenziali dell'aggressione della Nato alla Repubblica Federale Jugoslava, fortissimamente voluta dagli Stati Uniti.

"Il crollo dell'Unione Sovietica - scrive l'autore - ha fatto sì che gli Stati Uniti diventassero la prima e unica potenza veramente globale, con una egemonia mondiale senza precedenti e oggi incontrastata. Ma continuerà ad esserlo anche in futuro? Per gli Stati Uniti, il premio geopolitico più importante è rappresentato dall'Eurasia, il continente più grande del globo", che "occupa, geopoliticamente parlando, una posizione assiale, dove vive circa il 75% della popolazione mondiale ed è concentrata gran parte della ricchezza del mondo, sia industriale che nel sottosuolo. Questo continente incide per circa il 60% sul PIL mondiale e per 3/4 sulle risorse energetiche conosciute ... L'Eurasia - sintetizza Brzezinski - è quindi la scacchiera su cui si continua a giocare la partita per la supremazia globale".

"Ma se la Russia - prosegue l'autore - dovesse respingere l'Occidente, diventare una singola entità aggressiva e stringere un'alleanza con il principale attore orientale (la Cina) ", e con l'India, "allora il primato americano in Eurasia si ridurrebbe sensibilmente". E così pure se i partner euro-occidentali, soprattutto Francia e Germania, "dovessero spodestare gli Stati Uniti dal loro osservatorio nella periferia occidentale" (così viene definita l'area dell'Unione Europea), "la partecipazione americana alla partita nello scacchiere eurasiatico si concluderebbe automaticamente".

Quindi, conclude Brzezinski, "la capacità degli Stati Uniti di esercitare un'effettiva supremazia mondiale dipenderà dal modo con cui sapranno affrontare i complessi equilibri di forza nell'Eurasia: e la priorità deve essere quella di tenere sotto controllo l'ascesa di altre potenze regionali (predominanti e antagoniste) in modo che non minaccino la supremazia mondiale degli Stati Uniti".

"Per usare una terminologia che riecheggia l'epoca più brutale degli antichi imperi, tre sono i grandi imperativi della geo-strategia imperiale: impedire collusioni e mantenere tra i vassalli la dipendenza in termini di sicurezza, garantire la protezione e l'arrendevolezza dei tributari e impedire ai barbari di stringere alleanze".

Gli Stati Uniti vogliono in primo luogo evitare che in Russia si affermi un potere politico influenzato dai comunisti, avverso al liberismo selvaggio che ha precipitato il Paese nella crisi più nera e volto a ristabilire una collocazione internazionale della Russia non subalterna all'Occidente. Per questo il deposto premier Primakov era ed è considerato un avversario temibile: è sostenuto da una Duma dominata dai comunisti, sorretto da un consenso popolare dell'80%, favorito alle elezioni presidenziali dell'anno prossimo, mentre il consenso degli uomini di fiducia degli Stati Uniti, come Eltsin e Cernomyrdin è precipitato al 5-10%. Anche per questo Eltsin lo ha destituito (rendendo ormai drammatico il fossato tra paese reale e paese "legale", ai limiti di uno scontro interno che potrebbe precipitare in forme drammatiche), dopo avergli sottratto il dossier "guerra in Jugoslavia" per affidarlo a Cernomyrdin. In modo che l'eventuale successo di una mediazione diplomatica russa avvenga su una linea più docile alle volontà della Nato, e che sia il nucleo eltsiniano (e non Primakov e la sua squadra) a trarne i maggiori benefici di immagine, in vista delle prossime scadenze elettorali in Russia.

Gli Usa vogliono inoltre favorire una evoluzione della Cina per cui le forze espressione di una nuova borghesia interna legata al mercato internazionale (che auspica un legame preferenziale e docile con gli Stati Uniti) prendano gradualmente il sopravvento sulle forze sociali e politiche che restano legate a un progetto originale e inedito di lunga transizione al socialismo, con una economia mista in cui il pubblico resti comunque prevalente sul privato. Il bombardamento pianificato dell'ambasciata cinese a Belgrado, era certo un test per vedere fino a che punto la Cina era in grado di assumere sulla guerra in Jugoslavia un profilo forte e autonomo dagli Usa e la reazione degli studenti cinesi (da molti considerati ormai succubi del modello americano) è stato un segnale più che incoraggiante di tenuta di un orientamento antimperialista, di dignità nazionale, di autonomia di valori, che parla alle nuove generazioni del mondo intero. Ma quelle bombe si proponevano, da parte dei fautori della guerra totale contro la Jugoslavia, anche l'obbiettivo di inasprire le relazioni internazionali e rendere impossibile in sede Onu una risoluzione ragionevole e negoziata (non imposta dalla Nato) tra tutte le parti in causa del conflitto balcanico.

Anche sull'India, potenza nucleare, gli Usa premono per sottrarla alla sua storica collocazione di non allineamento, che conserva forti radici nel Paese, per imporle una linea di privatizzazioni selvagge e di smantellamento del ruolo dello Stato in economia (tuttora consistente) e omologarla al modello neo-liberale.

In Europa si cerca di impedire che si affermi un modello sociale diverso da quello neo-liberale ed un sistema di sicurezza alternativo alla Nato e alla tutela americana sull'Europa. Tanto più se ciò dovesse prefigurare un quadro di cooperazione economica, politica e militare di tutta l'Europa, dall'Atlantico agli Urali, passando per i Balcani. Il che configurerebbe una entità economica geopolitica e di sicurezza di prima grandezza nel panorama mondiale e scalzerebbe l'influenza predominante degli Usa sul vecchio continente. Proprio Primakov è stato e rimane uno dei più convinti assertori di questo asse Russia-Unione Europea ad Ovest, e di un altro asse Russia-Cina-India ad oriente, che marcherebbero una evoluzione multipolare degli assetti planetari e degli stessi rapporti in seno alle Nazioni Unite, minando il progetto americano di egemonia globale unipolare, che comporta invece l'affossamento dell'Onu e la trasformazione della nuova Nato a guida americana in regolatore supremo di ogni controversia internazionale.

Sul solo terreno della competizione economica l'imperialismo americano non è in grado oggi di dominare il mondo e di subordinare i suoi stessi alleati/concorrenti come Unione Europea e Giappone. Gli Usa incidevano nel dopoguerra per il 50% del PIL mondiale: oggi la percentuale si è dimezzata, ed è di poco inferiore a quella dell'Unione Europea. Spostare la competizione sul terreno militare, dove la potenza Usa è ancora di gran lunga preponderante, significa usare la guerra come strumento di egemonia economica e politica.

Anche contro l'Europa: costringendola a subire l'iniziativa e l'interventismo anglo-americano o ad entrare nel gioco della grande spartizione delle zone di influenza, ma in posizione subalterna. Come appunto è avvenuto con questa guerra.

Siamo partiti, in apparenza, da lontano, ma la conclusione è sintetica e ci tocca da vicino. Il controllo dei Balcani è strategico nella competizione per il controllo dell'Eurasia. I Balcani sono storicamente la porta per l'Oriente; da lì passano oggi oleodotti e gasdotti che trasportano le vitali risorse energetiche tra Europa e Asia. Nella contigua regione del Mar Caspio, del Mar Nero, del Caucaso gli scienziati stimano esservi giacimenti di petrolio e di gas naturale tra i maggiori del mondo. L'allargamento della Nato ad Est si propone di inglobare gradualmente tutti i paesi dell'Europa centro-orientale e dei Balcani, incluse le repubbliche europee dell'ex Unione Sovietica, per farne un grande protettorato atlantico: per controllarne le risorse e circondare una Russia non ancora "normalizzata" e dal futuro incerto. Mentre all'altro capo del continente eurasiatico, proprio in queste settimane, è andata strutturandosi una "Nato asiatica", che comprende, in un sistema militare e di "sicurezza" integrato, gli Stati Uniti, il Giappone, la Corea del Sud e strizza l'occhio a Taiwan, cui si assicura "protezione".

Che cosa accadrebbe domani se gli Stati Uniti decidessero di dare vita ad una nuova UCK in Cecenia, in Daghestan; in Tibet o magari a Taiwan?

La Jugoslavia rappresentava, agli inizi degli anni '90, un ostacolo alla normalizzazione dei Balcani. Facendo leva su processi disgregativi interni e ataviche tensioni etniche e nazionali, alimentate dalla crisi dell'esperienza socialista jugoslava (che richiederebbe un discorso a parte), la Germania prima e gli Usa poi hanno spinto per la disintegrazione del paese (attizzare il fuoco, disgregare, per poi intervenire, assumere il controllo, colonizzare). Da qui la secessione della Slovenia, della Croazia, della Macedonia, della Bosnia, e la trasformazione dell'Albania in una grande base Nato nel Mediterraneo. Restava ancora da spappolare la Repubblica Federale Jugoslava, e soprattutto l'indocile Serbia. Così fu aperto il dossier Kossovo, dove certo non mancavano i presupposti per gettare benzina sul fuoco. E dove la parte più estrema del nazionalismo serbo, con forti appoggi nel governo di Belgrado, aveva colpevolmente contribuito ad esasperare i rapporti con la popolazione kossovara di origine albanese: a sua volta sospinta dall'UCK, armata dagli americani, a precipitare la regione nella guerra civile, per poi invocare l'intervento "liberatore" della Nato.. Ma questa è storia dei giorni nostri; anzi, cronaca.

Un talebano val bene l'URSS
autout - Geopolitica 09.11.2001

 

 

 

Dal libro più importante di Zbygniew Brzezinsky consigliere di Jimmy Carter, capo degli strateghi USA, "creatore" dei Mujaheddin in funzione antisovietica.



Zbygniew Brzezinsky (consigliere di H.Kissinger), da 

La grande scacchiera



"L'Eurasia occupa la scacchiera sulla quale si svolge la lotta per il dominio sul mondo. La maniera in cui gli Usa 'gestiscono' l'Eurasia è di importanza cruciale. Il più grande 'continente' sulla faccia del pianeta ne costituisce anche l'asse geopolitico. Qualunque potenza che la controlli, controlla anche due delle tre aree più sviluppate e maggiormente produttive. Il compito più urgente per gli Usa è sorvegliare affinché nessuno stato o gruppo di stati abbia la possibilità di cacciarli dall'Eurasia o anche solo di indebolirne il ruolo di arbitro."

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Zbigniew Brzezinsky:
Come io e Jimmy Carter abbiamo creato i Mujaheddin

Intervista a Zbigniew Brzezinsky da Le Nouvel Observateur (Francia) 15
Gennaio 1998 pag. 76.

Domanda: Il precedente direttore della CIA, Robert
Gates, ha dichiarato nel suo libro di memorie (?Dalle ombre?), che i
servizi segreti americani hanno cominciato ad aiutare i Mujaheddin Afghani
sei mesi prima dell'intervento sovietico in Afghanistan. In questo periodo
lei era il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter.
Lei ha quindi giocato una parte in tutto questo, vero?

Brzezinsky: Si'. Secondo la versione ufficiale della faccenda, gli aiuti ai
Mujaheddin da parte della CIA sono cominciati durante il 1980, ovvero, dopo
che l'armata rossa aveva cominciato l'invasione dell'Afghanistan il 24
Dicembre 1979. La realta', rimasta fino ad oggi strettamente celata, e?
completamente diversa: e' stato il 3 luglio 1979 che il presidente Carter
ha firmato la prima direttiva per aiutare segretamente gli oppositori del
regime filo sovietico di Kabul.
Quello stesso giorno ho scritto una nota al presidente nella quale si
spiegava che a mio parere quell'aiuto avrebbe determinato un intervento
armato dell'unione sovietica in Afghanistan.

D: nonostante questo rischio lei ha sostenuto questa azione segreta. Ma lei
stesso desiderava questo intervento sovietico ed ha cercato di provocarlo?

Brzezinsky: non e' proprio cosi?. Non abbiamo spinto i russi ad
intervenire, ma abbiamo consapevolmente aumentato le probabilita' di un
loro intervento.

D: quando i sovietici hanno giustificato il loro intervento con la
necessita' di contrastare un coinvolgimento segreto degli Stati uniti in
Afghanistan, nessuno li ha creduti. Invece c'era un fondamento di verita'.
Lei ha qualche rimorso, oggi?

Brzezinsky: rimorso di che tipo? Quell?operazione segreta e' stata
un'ottima idea. Ha avuto l'effetto di attirare i Russi nella trappola
Afghana ed io dovrei pentirmene? Il giorno che i sovietici hanno varcato il
confine afghano ho scritto al presidente Carter che finalmente avevamo
l'opportunita? di dare all'Unione Sovietica la sua guerra del Vietnam.
Infatti per circa dieci anni Mosca ha dovuto portare avanti una guerra
insostenibile da parte del governo, un conflitto che ha demoralizzato ed
infine sgretolato l'impero sovietico.

D: e nessuno di voi e' pentito di avere supportato l'integralismo ed il
terrorismo islamico con armi ed addestramento?

Brzezinsky: cosa e' piu' importante per la storia del mondo? I talebani od
il collasso dell?impero sovietico? Qualche musulmano esaltato o la
liberazione dell'europa centrale e la fine della guerra fredda?

D: qualche esaltato musulmano? Ma e' stato detto e ripetuto che il
fondamentalismo islamico rappresenta oggi una minaccia mondiale.

Brzezinsky: balle. Si dice che l'occidente abbia una politica globale
riguardo all'islam. Cio' e' stupido. Non esiste un Islam globale. Prova a
guardare all'Islam in modo razionale e senza demagogia o emozione. E' la
religione principale al mondo ed ha un miliardo e mezzo di seguaci. Ma cosa
lega il fondamentalismo Saudita, la moderazione di stati quali il Marocco,
il militarismo Pakistano, il filo occidentalismo Egiziano e gli stati laici
dell?Asia centrale? Nulla piu' di cio' che unisce le nazioni cristiane.

Petrolio: la posta in gioco
Tra speculazione finanziaria e competizione tra Europa e Stati Uniti il petrolio torna ad infiammare le relazioni internazionali. Una crisi pilotata? E' all'orizzonte una nuova guerra contro l'Iraq? Come evolveranno i conflitti nella regione del Caucaso? Inquietanti scenari per il futuro.

Da mesi ormai l'economia internazionale - e l'area europea soprattutto - sta facendo i conti con l'escalation dei prezzi petroliferi.
Sulle cause di questa nuova crisi, si confrontano tesi diverse e si delineano scenari differenti tra loro. Cercare di mettere a fuoco le dinamiche in corso, le cause e le conseguenze, potrebbe non risultare appassionante per chi é impegnato nella lotta politica quotidiana, eppure questa "quarta crisi petrolifera" negli ultimi trenta anni va compresa a fondo (1).
Occorre partire da una domanda di fondo e dalla sua risposta. Questa crisi é connaturata agli andamenti del mercato mondiale o é una crisi "pilotata"? E se in essa convivono le due cause, quale delle due ha assunto un peso decisivo nelle conseguenze sue geopolitiche ed economiche?

1. Una prima chiave di lettura offerta in pasto alle opinioni pubbliche in questi mesi, sostiene che la colpa dei paesi produttori che hanno tagliato la produzione e dunque alzato i prezzi. I paesi petroliferi sono fortemente indebitati e un aumento dei prezzi gli consentirebbe di riequilibrare la bilancia commerciale e ridurre il debito estero accumulato. In questa chiave lettura c'é una parte di verità e una menzogna: quest'ultima é fondamentale.
Innanzitutto occorre avere chiaro chi sono i paesi produttori, qual'è la loro struttura economica e quali sono le loro possibilità reali sul mercato in base alle loro ragioni di scambio.
Per quindici paesi sui ventuno paesi produttori, il petrolio rappresenta più del 60% della loro economia. (raggiunge il 92% per la Nigeria, il 91% per la Libia e il 90% per l'Oman).
Per tutti i paesi petroliferi le ragioni di scambio nell'epoca dei prezzi bassi erano fortemente negative (nel 1998 si andava dal -28% di Nigeria, Libia e Oman al -8 della Norvegia. Nel 1999 l'indice negativo si è fortemente abbassato dal -14 del piccolo sultanato del Brunei al -1 del Barhein. Nel 2000 sono tornati tutti in attivo dal + 38 della Nigeria al +11 della Russia.

I maggiori produttori mondiali di petrolio (1)
(in decine di migliaia di barili al giorno)

 

1994

1997

2000

Arabia Saudita*

8.96

8.88

8.50

Stati Uniti

8.35

8.29

8.06

Russia

6.38

6.20

7.99**

Iran*

3.60

3.70

3.65

Messico

3.26

3.06

3.61

Cina

2.90

2.99

3.23

Norvegia

2.75

2.99

3.26

Venezuela*

2.67

2.84

2.93

Gran Bretagna

2.67

2.75

2.73

Emirati Arabi Uniti*

1.58

1.57

1.31

Libia*

1.41

1.41

1.43

(fonte: Economist Intelligence Unit) (fonte: AIE)

(1) Nelle graduatorie internazionali, a causa dell'embargo, continua ad essere escluso l'Iraq che però ha capacità produttive superiori all'Arabia Saudita
* Paesi membri dell'OPEC
** Il dato del 2000 è conteggiato come ex URSS e non disaggregato per le singole repubbliche
come Russia, Azerbajian, Kazachistan etc.


I maggiori consumatori mondiali di energia

Petrolio

Gas naturale

Carbone

Stati Uniti

Stati Uniti

Cina

Giappone

Russia

Stati Uniti

Cina

Ucraina

India

Russia

Germania

Russia

Germania

Canada

Germania

Corea del Sud

Gran Bretagna

Giappone

Italia

Giappone

Sudafrica

Francia

Italia

Polonia

Canada e Gran Bretagna

Uzbekistan

Gran Bretagna

Messico

Arabia Saudita

Ucraina

(dati del 1998 dell'Economist Intelligence Unit)

I paesi petroliferi (siano essi membri dell'OPEC o no) hanno indubbiamente tratto dei vantaggi dall'aumento dei prezzi del petrolio, ma tali vantaggi sono equivalenti o inferiori a quelli delle grandi compagnie multinazionali che gestiscono la parte del ciclo petrolifero che produce maggior valore aggiunto cioé quella successiva alla fase della mera estrazione della materia prima.
Inoltre, il vantaggio é indubbiamente inferiore a quello fiscale dei governi dei paesi consumatori che tassano pesantemente i derivati del petrolio, determinandone così un "prezzo elevato" al consumo.
I governi europei lamentano l'appesantimento della bolletta petrolifera, ma ne approfittano per incamerare un assai congruo prelievo fiscale su tutti gli idrocarburi e i suoi derivati (luce, gas etc.) (2)

2. Una seconda chiave di lettura addossa la responsabilità della crisi ad un "eccesso di domanda" dei prodotti petroliferi dovuta alla ripresa economica dei paesi asiatici dopo il crack del '97 e a quella dei paesi europei dopo la stagnazione degli anni di Maastricht.
A questo eccesso di domanda (che tra l'altro era stata ampiamente prevista già negli anni di prezzi bassi), i paesi produttori non riescono a rispondere sul piano dell'offerta.

La domanda mondiale di petrolio
1997: 73,7 mln di barili;
1998: 73,6 mln;
1999: 75,3 mln;
2000: 77,1 mln

Significative in questo senso sono le previsioni dell'Outlook dell'Agenzia Internazionale per l'Energia avanzate a metà degli anni '80 e cioè all'indomani delle due maggiori crisi petrolifere ('73 e '79) ed in piena guerra del Golfo tra Iran e Iraq (3).
Queste previsioni parlavano di una domanda tra i 58 e i 74 milioni di barili di petrolio al giorno
Questa tesi, esposta piuttosto chiaramente dall'economista e premio Nobel, Samuelson, o dal capo economista della Deutsche Bank, Norbert Walter, viene contestata da altri economisti (4).
Se questa tesi corrisponde al vero, la crisi sarebbe stata innescata - paradossalmente - dalla ripresa dell'economia mondiale in due aree: quella europea e quella asiatica.

3. La terza chiave di lettura assegna alla speculazione finanziaria il boom dei prezzi petroliferi che verrebbero fissati non più sulla base dei costi di produzione, raffinazione, distribuzione, ma sulle "scommesse" (i famosi futures) che ormai sembrano dominare i mercati finanziari mondiali, sempre più simili ad un casinò e sempre più lontani dall'economia reale.
Il segretario dell'OPEC, il nigeriano Lukman, nel recente vertice di Caracas, ha denunciato questa situazione molto chiaramente."L'OPEC è ormai il capro espiatorio per gli aumenti dovuti a speculazioni di mercato, costi di trasporto,tasse. Il mercato del petrolio è tenuto in scacco dai derivati, le vecchie regoole della domanda e dell'offerta sono state distorte" .
Ancora più esplicito é stato il presidente dell'OPEC, il venezuelano Rodriguez, il quale ha denunciato che almeno 8 dollari sulle quotazioni sono da imputare alla speculazione (5).
I fatti sembrano dare ragione a questa tesi. Infatti anche quando l'OPEC ha deciso di tagliare la produzione, le quotazioni del petrolio sono salite invece che scendere, ciò significa che il prezzo è stato condizionato dai futures} più che dalla legge dell'offerta e della domanda.
Una conferma di questa dominanza della speculazione finanziaria sui prezzi petroliferi, viene dai suggerimenti e dai servizi agli investitori forniti da gruppi come l'Unicredito a partire dal febbraio di quest'anno. "Grazie ad un nuovo strumento, i covered warrant , ora anche i piccoli investitori possono speculare sull'andamento dei prezzi del greggio, un pò come fanno gli investitori professionali" annuncia la pagina dedicata a"patrimoni e finanza" del CorrierEconomia. Il quale precisa che i covered (esattamente come i futures) }hanno la caratteristica di amplificare al rialzo o al ribasso le variazioni di prezzo dello strumento a cui sono collegate (6).
Ma è proprio questa invadenza della speculazione finanziaria, rivela una quarta possibile chiave di lettura o meglio l'interconnessione con la precedente: la competizione tra euro e dollaro come valute nelle transazioni internazionali. L'andamento dei tassi di cambio tra euro e dollaro, entrata già prepotentemente nelle variabili determinanti delle scommesse alla base dei futures e dell'alveare di derivati finanziari
messi in campo dalla speculazione. Ad esempio i covered warrant sono quotati in euro ma il sottostante è in dollari. Per portare a casa i profitti occorre dunque scommettere non solo sul prezzo del greggio ma anche sul rischio di cambio tra le due valute.


Il "grande manovratore"

Le chiavi di lettura presentate antecedentemente, contengono buona parte della verità sulla recente escalation petrolifera, ma in queste occorre portare alla luce un manovratore soggettivo: gli Stati Uniti.
Storicamente gli USA hanno utilizzato l'arma del petrolio - di cui dispongono in grandi riserve e di cui controllano la gran parte del ciclo tramite le grandi multinazionali - contro le ambizioni dell'Europa e del Giappone.
La perfetta sintonia tra la politica internazionale degli USA e i progetti delle multinazionali petroliferi, ha determinato buona parte della storia recente dell'umanità. Golpes, guerre, conflitti di bassa intensità, corruzione, sono stati gli strumenti con cui il "grande manovratore" si è sempre assicurato il pieno controllo del mercato mondiale del petrolio. Ma non c'è solo il ricorso alla guerra (che tutto sommato resta l'estrema risorsa) c'è anche il tentativo di mantenere il controllo dei flussi economici mondiali.
Se confrontiamo il processo di fusione e concentrazione avvenuto tra il 1998 e il 2000 tra i grandi gruppi petroliferi con la situazione esistente solo tre anni fa, emerge piuttosto chiaramente il processo di concentrazione monopolista in corso a livello mondiale su risorse strategiche come il petrolio e il gas.
In questo mercato, le multinazionali che hanno come "riferimento" il polo anglosassone (USA e Gran Bretagna) controllano quasi il 70% del mercato mondiale e l'86% della capitalizzazione delle società petrolifere.
Con il petrolio a dieci dollari il barile, le prime dieci compagnie multinazionali nel 1998 hanno incassato profitti netti per 30 miliardi di dollari. Con un prezzo triplicato è facile prevedere quanto stanno incassando tenendo conto che - a differenza dei paesi produttori- non hanno alcun bisogno di "redistribuire" tali profitti all'interno del paese. Non solo, l'ambizione delle multinazionali è quella di elevare la quota di profitto dal ciclo petrolifero operando in due direzioni: aumentando la concentrazione monopolistica (come dimostra la tabella) e arrivando a controllare anche il processo di estrazione (i pozzi) che fino ad oggi sono rimasti di proprietà degli stati produttori di petrolio.

Chi controlla il mercato del petrolio
Tra la fine del 1998 e il 1999, abbiamo assistito ad un impressionante processo di fusioni e concentrazioni tra le grandi multinazionali del petrolio.
Ad aprire i giochi sono state la fusione tra Exxon e Mobil e quella tra British Petroleum (BP) e Amoco. Contemporaneamente la Total acquistava la Petrofina. Ad aprile del 1999 la BP-Amoco acquisivano la Atlantic Richfield (ARCO), a maggio la Repsol acquisiva la compagnia argentina YPF le norvegiesi Norsk Hydro e Saga Petroleum si fondevano tra loro. A luglio la Totalfina si fondeva con la ELF lasciando a becco asciutto l'italiana ENI.

 

La situazione
nel 1973
(le Sette Sorelle)

Paese di "riferimento"

I grandi gruppi prima delle fusioni del 1999

Paese di "riferimento"

Exxon

Stati Uniti

Exxon

Stati Uniti

Royal Dutch Shell
British Petroleum

Olanda-Gran Bretagna
Gran Bretagna

Mobil

Stati Uniti

Mobil Corp

Stati Uniti

Gulf Oil

Stati Uniti

Amoco

Stati Uniti

Socal

Stati Uniti

Total

Francia

British Petroleum

Gran Bretagna

Chevron

Stati Uniti

 

 

ENI

Italia

 

 

ELF

Francia

 

 

Schlumberger

Stati Uniti

 

 

Atlantic Richfield

Stati Uniti

 

 

Repsol

Spagna

 

 

Haliburton

Stati Uniti

 

 

Petrofina

Belgio

 

 

Boc Group

Gran Bretagna

 

 

Imperial Oil

Stati Uniti

(Fonte : Morgan Stanley capital international)


La nuova mappa del potere economico nel mercato del petrolio

Multinazionale

Quota del mercato

Capitalizzazione
(in mld di dollari

Paese di "riferimento"

Exxon-Mobil

26,2%

244

Stati Uniti







questo articolo è tratto da un elenco di documenti riguardanti i "neoconservatori" o "neocon" americani presenti sul sito di Fisica/Mente. Non rispecchia quindi necessariamente l'opinione del curatore del sito Kelebek. Fare clic qui per la pagina principale di questa parte del sito, dedicata ai neoconservatori.




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