«L'America che vedo»
Scrive una lettrice che vive a Boston: «Sì signor Pintor, lei ha ragione:

gli americani non sanno cosa succede in questa guerra e credono nel loro
governo perché sono stati educati a farlo. Ma gli americani non sono tutti
alti, biondi e ricchi. Ci sono anche quelli che non hanno accesso
all'assistenza sanitaria, quelli che pur lavorando vivono sotto la soglia di
povertà e quelli che stanno in galera. E c'è chi non può andare a scuola. E
questa America non ha nessuna voglia di mandare i suoi figli a bombardare un
paese che non sa nemmeno dove sia»
SARA GALLETTI
Boston, 3 aprile 2003. Caro signor Pintor, questa mattina leggevo online il
suo editoriale «Non sanno», in cui lei esprime la speranza che, se davvero
gli americani sono per questa guerra, per lo meno lo siano senza essere al
corrente degli orrori in corso in quella Baghdad che una (preoccupante)
maggioranza di loro non sapeva identificare su una mappa del mondo fino
all'autunno scorso. Lei cita la «censura» e «auto-censura» dei media
americani, una democrazia «squalificata», e un odio nei confronti
dell'America che rischia di diventare, agli occhi del mondo, meno
«immotivato e ingiusto» di quanto non sia stato finora. Vivo e lavoro a
Boston con il mio compagno e nostra figlia di un anno dal novembre 2001:
guerra in Afganistan (si può, da qui, tracciare una serie piuttosto macabra
di riferimenti temporali: l'ecografia morfologica del quinto mese di
gravidanza risale all'11 settembre 2001; mia figlia ha cominciato a parlare
nei giorni del famigerato appello di Bush alla nazione per l'attacco contro l'Iraq, e ha cominciato a camminare durante la seconda guerra del Golfo...).
Non guardo la televisione americana perché è inguardabile. Cnn trasmette
immagini della guerra che sembrano spezzoni di un buon film di fantascienza:
esplosioni, bagliori, spari, vittime talmente pulite che lo sanno anche i
bambini che, finito il ciak, si rialzano tutti e vanno a bere. Fox e le
altre sembrano il ritrovo di un club impazzito di Dungeons & Dragons:
sovreccitati esperti di guerra di serie C (quelli di serie A devono essere
impegnati altrove) che spostano bandierine colorate, litigando sulla
posizione finale da darsi con esperti politici di serie C (quelli di serie A
non lavorano per Fox, né per le altre), e blaterano a ritmo regolare
qualcosa su «l'ormai già troppo umiliato popolo iracheno». Ne ho sentito uno
prima di chiudere definitivamente che parlava degli «orrori e meraviglie»
della guerra, e che, nel suo scempio, sarebbe stato un caso interessante per
uno studio di archeologia culturale. I giornali sono anche peggio. Non che
fossi particolarmente entusiasta di trasferirmi in America due anni fa, ma
avevo anch'io il mio bagaglio (piccolo) di miti americani. Mito americano
numero uno: il Rock'n roll (vedi Thunder Road di Springsteen per dare
un'idea). Mito americano numero due: il Washington Post, il grande giornale
della sinistra democratica, delle indagini, insomma il posto dove lavora un
giornalista se è un giornalista figo. Thunder Road tiene (faticosamente)
ancora (per quanto non si capisca dove sia la terra promessa dove corrono
tutti su quelle vecchie Cadillac), il Washington Post è, invece, una
delusione che richiederà anni di elaborazione per essere assorbita. Come
tutti i giornali americani, si tratta di una demi-vierge: dice ma non dice,
fa ma non fa, denuncia ma mai per davvero, si scandalizza ma sempre alla
maniera di una vecchia signora. E non si incazza mai. Soprattutto con il
governo. Nei «grandi» giornali americani come quello, si legge dei
prigionieri di Guantanamo, e delle condizioni disumane in cui vivono (più
volte denunciate da organizzazioni per la difesa dei diritti umani), ma non
si legge che vengono «torturati» ma che sono «sottoposti a pressione da
stress indotto». Nei «grandi» giornali americani si parla della guerra nel
Golfo, ma gli ospedali pieni di civili iracheni non vengono «sventrati» ma
«toccati dai detriti di un bersaglio militare vicino»; i «cadaveri» di
soldati americani non sono mai stati trovati, quello che si trova attorno a
Baghdad e altrove sono i «cadaveri di soldati che non è immediatamente da
escludere che portassero uniformi americane»; quelle impegnate in Iraq non
sono «le truppe Americane e Inglesi» ma «le forze di liberazione della
Coalizione internazionale».

Le immagini pubblicate sono di natura analoga: i soldati in azione sono
sempre quelli inglesi; gli altri, puliti, sorridenti, seduti in una tenda
super-accessorriata con computer, telefonini satellitari, connessioni
Internet extra-veloci e altri gadget alto-tecnologici, quelli sono gli
americani. Gli iracheni, poi, non muoiono mai, e compaiono sempre festanti
attorno a qualche mezzo militare pieno di caramelle e d'acqua minerale dal
Maine. Sì, signor Pintor, lei ha ragione: gli americani non sanno cosa
succede in questa guerra, e credono nel loro governo perché sono stati
educati a farlo, sostengono le loro truppe perché sono i loro figli, e sono
patriottici perché amano il loro Paese e la ferita del World Trade Center è
lontana dall'essere rimarginata. E sembrano così ingenui e, francamente,
stupidi: milioni su milioni su milioni di pericolosissimi imbecilli
guerrafondai. Invece no, non sono stupidi. Ha ragione Bush quando dice che
«quella americana è la più antica democrazia del mondo», ma dimentica sempre
la seconda parte della frase: «ed è finita da tempo». Gli americani vivono
in un Paese in cui il 95% della ricchezza è in mano al 5% della popolazione;
quello stesso 5% è quello che controlla i media (di cui sono proprietari ),
che elegge il presidente (anche lui da quel 5%), che guida le scelte
politiche del Congresso (attraverso le lobby), che manda i propri figli
nelle (poche) ottime scuole che formano la classe dirigente di domani (a mo'
di manutenzione della specie) e i figli degli altri a combattere le (molte)
guerre sporche, e che, tramite una combinazione di questi e altri fattori,
gestisce l'intero Paese, le sue scelte e la sua immagine all'estero, in
barba ai desideri, bisogni, e diritti di tutti gli altri. Che non hanno
niente: 1 su 5 di loro non ha accesso all'assistenza sanitaria; 1 su 5 di
loro vive, pur lavorando, al di sotto della soglia di povertà; 1 su 5 di
loro sperimenta almeno una volta nella vita, assieme alla propria famiglia,
la vita per strada (family homelessness, tradotto: una famiglia normale che
non arriva a coprire le spese alla fine del mese, e in mancanza di qualsiasi
genere di struttura sociale, finisce a dormire sotto un ponte. Per la
cronaca: nel Massachusetts, che è uno stato ricco, e dove in inverno la
media sono i 15 sotto zero, ci sono almeno 80 mila persone che si trovano,
al momento, in questa situazione), 1 su 8 di loro è, mentre scrivo, in
galera, e hanno più o meno tutti frequentato pessime scuole. Questa America
qui certamente non ha nessuna voglia di mandare i propri figli a bombardare
un Paese che non sa nemmeno dove sia. Ma non ha voce. Come non hanno voce
quelli che manifestano per le strade (vedi New York City, 15 febbraio
scorso), messi a tacere, più o meno violentemente: dalla polizia che li
carica con i cavalli per non lasciar loro raggiungere il luogo di incontro
dei manifestanti; dalle televisioni, che del corteo di New York hanno
trasmesso 9 secondi, in mezzo a due servizi sui dubbi sostenitori iracheni
di Saddam, senza neanche menzionare dei milioni di persone nel resto del
mondo.

Questa America, signor Pintor, non si vede mai, neanche sui media europei.
Semplicemente non esiste, dimenticata, come tanti terzi e quarti mondi, al
fondo di un Paese le cui libertà non sono che mistificazioni della Libertà
(la libertà di scegliere tra 32 tipi di hamburger McDonald, tanto per fare
un esempio, ha decisamente avuto la meglio sulla libertà dei lavoratori di
McDonald di avere un contratto che duri più di tre mesi, di poter
organizzarsi in sindacati, o di ricevere la copertura delle spese
sanitarie). C'è una guerra anche qui, signor Pintor, tutti i giorni,
inascoltata e nascosta agli occhi delle telecamere: quella che Bush fa al
proprio popolo, impoverendolo, impaurendolo, mantenendolo ignorante, non
garantendogli i diritti basilari alla vita, lasciando che nel «più grande e
più ricco dei Paesi del mondo» ci siano tassi di mortalità infantile che
competono (vincendo) con quelli di alcuni dei Paesi più poveri della terra.
Questi americani qui, signor Pintor, sono già vittime e non meritano odio,
ma compassione. Soprattutto, quell'odio giustificabile di cui lei parla come
di un pericolo a venire, è già una delle migliori armi nelle mani di Bush,
del suo governo e dei suoi generali che, assieme a quella in Iraq, stanno
conducendo un'altra campagna crudele: quella di convincere il popolo
americano che il mondo tutto il mondo non solo quello arabo - li odia e li
vedrebbe volentieri tutti morti, o perlomeno sofferenti, e finalmente
scarichi di quell'insopportabile strafottenza. Come lei sa bene, non c'è
come chi si senta solo, detestato e minacciato che sia disposto a stringersi
coi suoi simili attorno alla prima delle bandiere, foss'anche la più
stupida, la più aggressiva, e la più cara (molto cara) da pagare.

Guardavo stamattina su un giornale italiano la foto di una bambina irachena,
circa dell'età della mia, ferita alle gambe che piange in braccio a suo
padre, che la ascolta e si guarda intorno con occhi vuoti e angosciati. Un
orrore. E ha certamente ragione lei, signor Pintor, a dire che sia
scandaloso che il pubblico americano non possa guardare in faccia quella
bambina per, magari, trovarla rivoltante la guerra e, magari, finalmente
opporvisi. Ma lavoro come volontaria in rifugio per senza tetto la sera: 9
famiglie, 14 bambini, io passo un paio d'ore a giocare con i cinque più
piccoli, tutti tra i due e i tre anni e mezzo. Fortunati, che se piangono è
in genere per qualcosa che passa con una distrazione. Ma quando mi allungano
i tre quarti di dollaro che hanno messo insieme non so come «perché così
anche la tua mamma può smettere di dormire all'aperto», e piangono perché
vogliono tornare a casa, o perché hanno paura di dover andare ancora a
dormire per le strade, o perché pensano sia stata colpa loro, provo
disperazione, rabbia, e un orrore che non è affatto diverso da quello della
foto. Sono le stesse vittime, degli stessi carnefici, che trovano più
conveniente spendere milioni di dollari in bombardamenti piuttosto che in
pane, latte, libri, medicine, ecc. I media però, anche quelli sensibili agli
orrori, non li fotografano, non ne parlano. Perché queste vittime qui hanno
il passaporto sbagliato: sono yankee, e quello che piace ai media degli
yankee è che sono tutti grandi, tutti biondi, tutti grassi, tutti ricchi,
tutti scemi, e, forse un domani, meritevoli di quell'odio che c'è già. Non
credo all'esistenza di un odio giustificabile, signor Pintor, non credo ai
capri espiatori, e non credo alle generalizzazioni e all'anti-americanismo
da Bar Sport di paese. C'è un orrore qui e ora, tutti i giorni, ovunque si
abbia il coraggio di guardare, che non ha passaporti né bandiere e che non
può e non deve diventare il pretesto di nessun odio tollerato.

Cordialmente

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/06-Aprile-2003/art117.html







questo articolo è tratto da un elenco di documenti riguardanti i "neoconservatori" o "neocon" americani presenti sul sito di Fisica/Mente. Non rispecchia quindi necessariamente l'opinione del curatore del sito Kelebek. Fare clic qui per la pagina principale di questa parte del sito, dedicata ai neoconservatori.




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