le dinamiche del disordine mondiale
Le tentazioni imperiali degli Stati uniti
 



LE MONDE diplomatique - Settembre 2002



Perché tanto odio nei nostri confronti? Nel commemorare gli attentati dell'11 settembre, gli americani continuano a porsi la domanda. Per rispondere, dovrebbero abbandonare il loro unilateralismo e ascoltare quelle voci che, da varie parti del mondo, criticano le ingiustizie dell'ordine internazionale. Negli Stati uniti, tanto il cinema quanto la televisione mostrano, ciascuno a suo modo, lo smarrimento di una società lacerata tra aspirazioni contraddittorie, tra proclami bellicosi di vendetta e ideali di giustizia (si legga alle pagine 16 e 17). Ma l'amministrazione Bush, come peraltro anche una parte della destra religiosa cristiana schierata dietro il governo israeliano, non ha in questo senso alcuna remora e sta mettendo a punto un nuovo corpus di dottrine diplomatiche e militari, basato sul concetto di intervento preventivo (si legga alle pagine 12 e 13). Un'operazione funzionale alla massima aspirazione dell'attuale leadership: quella di trasformare gli Stati uniti nella Roma del XXI secolo

PHILIP S. GOLUB*
Qualche mese prima degli attentati dell'11 settembre, lo storico americano Arthur Schlesinger Jr. aveva avanzato l'ipotesi che «malgrado la tentazione da superpotenza» generata dall'unipolarismo, gli Stati uniti non avrebbero sconfinato nell'imperialismo, visto che nessun paese da solo era in grado «di assumere il ruolo di arbitro o di gendarme mondiale» e di raccogliere le sfide globali demografiche, politiche e ambientali del XXI secolo (1). Come molti intellettuali, Schlesinger era fiducioso rispetto alla «capacità d'autoregolazione della democrazia» americana e alla razionalità di chi effettivamente prende le decisioni.
Charles William Maynes, voce influente nell'ambiente della politica estera americana, affermava con lo stesso spirito che «l'America è un paese dotato di capacità imperiali ma privo di vocazione imperialiste»
(2). Oggi bisogna arrendersi all'evidenza: con George W. Bush sta emergendo una nuova grammatica imperiale, che ricorda quella in voga alla fine del XIX secolo, quando gli Stati uniti si lanciarono nella competizione coloniale facendo i loro primi importanti passi verso un'espansione mondiale nei Caraibi, in Asia e nel Pacifico. All'epoca, un prodigioso fervore imperialista si era impadronito del paese di Jefferson e Lincoln. Giornalisti, uomini d'affari, banchieri, e politici gareggiavano in ardore nella promozione di una robusta politica di conquista del mondo. Gli «occhi di chi dirigeva l'economia erano puntati verso la supremazia industriale mondiale» (3), mentre i politici sognavano una «splendida piccola guerra» (secondo la celebre espressione di Theodore Roosevelt) che serviva da giustificazione all'espansione internazionale. «Nel XIX secolo nessun popolo ha eguagliato le nostre conquiste, le nostre colonizzazioni e la nostra espansione (...); ora nulla ci fermerà», affermava nel 1895 il senatore Henry Cabot Lodge, capofila del partito imperialista (4). Per Theodore Roosevelt, a suo tempo ammiratore del poeta imperiale inglese Rudyard Kipling, la questione era evidente: «Voglio - diceva - che gli Stati uniti divengano la potenza dominante nel Pacifico». E aggiungeva: «il popolo americano desidera compiere gesta degne di una grande potenza» (5). Nel riassumere questo spirito imperialista diffuso alla fine del XIX secolo, un certo Marse Henry Watterson, un giornalista, scriveva nel 1896 con orgoglio e in maniera curiosamente premonitrice: «siamo una grande repubblica imperiale destinata a esercitare un'influenza determinante sull'umanità e a plasmare l'avvenire del mondo come nessun altra nazione, compreso l'impero romano, abbia mai fatto» (6).
La storiografia tradizionale americana ha a lungo considerato questo Sturm und Drang imperialista come un'aberrazione in un percorso democratico in realtà piuttosto regolare. Nati e forgiati dalla lotta anti-coloniale contro l'impero britannico e le monarchie assolutiste europee, gli Stati uniti non erano da ritenersi vaccinati per sempre contro il virus imperialista?
Un secolo più tardi, tuttavia, quando ha inizio un nuovo periodo di espansione e di «formalizzazione» dell'impero americano, Roma è tornata a essere lo specchio lontano ma ossessivo delle élites americane. Gli Stati uniti, dall'alto dell'unipolarismo acquisito nel 1991 e rafforzato dopo l'11 settembre da una mobilitazione militare di ampiezza eccezionale, abbagliati dalla loro stessa forza, oggi si considerano apertamente una potenza imperiale. Per la prima volta dalla fine del XIX secolo, lo spiegamento della forza si accompagna a un esplicito discorso di legittimazione dell'impero. «Il fatto è - afferma Charles Krauthammer, editorialista del Washington Post e ideologo di punta della nuova destra americana - che dai tempi di Roma nessun paese è stato culturalmente, tecnicamente e militarmente tanto dominante»
(7). «L'America - scriveva Krauthammer già nel 1999 - sovrasta il mondo come un colosso (...). Dall'epoca in cui Roma distrusse Cartagine, nessun altra grande potenza ha mai toccato le vette che noi abbiamo raggiunto». Per Robert Kaplan, saggista e mentore di George W. Bush in fatto di politica internazionale, «la vittoria della seconda guerra mondiale ha trasformato gli Stati uniti in potenza universale, come successe a Roma all'epoca della seconda guerra punica» (8).
Roma è divenuta il riferimento obbligato anche per autori collocati più al centro nello scacchiere politico. Joseph S. Nye Jr., rettore della Kennedy School of Government all'università di Harvard e a capo del National Intelligence Council con Clinton inizia così il suo ultimo libro: «Dai tempi di Roma, non è mai esistita una nazione che abbia tanto oscurato le altre»
(9). Paul Kennedy storico di fama conosciuto per la tesi sviluppata negli anni '80 sulla «sovra-esposizione imperiale» degli Stati uniti, si spinge ancora più lontano: «Né la Pax britannica (...) né la la Francia napoleonica (...) né la Spagna di Filippo II (...) né l'impero di Carlomagno (...) né lo stesso impero romano sono comparabili» all'attuale dominio americano (10).
«Non si è mai manifestata - aggiunge lo studioso con maggiore freddezza - una tale disparità di potere» nel sistema mondiale.
Insomma, gli ambienti oltre Atlantico più o meno legati al potere concordano sul fatto che «gli Stati uniti oggi godono di un primato che non ha paragone con gli imperi del passato, nemmeno i più grandi»
(11). Al di là della sua funzione descrittiva, la frequenza dell'analogia romana così come l'ubiquità della parola «impero» nella stampa e nelle riviste specializzate americane illustrano la costruzione di una nuova ideologia imperiale.
«Ragioni in favore di un impero americano»: questo l'inequivocabile titolo di un articolo di Max Boot, editorialista del Wall Street Journal, in cui si può leggere: «Non è un caso che l'America [abbia oggi intrapreso] azioni militari in molti paesi dove generazioni di soldati coloniali britannici hanno condotto le loro campagne (...), in zone dove è stato necessario l'intervento degli eserciti occidentali per soffocare il disordine». Secondo Boot, «l'Afghanistan e altre terre difficili implorano oggi [l'Occidente] affinché crei un'amministrazione straniera illuminata come quella un tempo offerta da quegli inglesi fiduciosi, con i loro pantaloni da cavallerizzo e i caschi coloniali»
(12).
Un altro ideologo di destra, Dinesh D'Souza, ricercatore alla Hoover Institution che si era fatto notare qualche anno fa difendendo le teorie sull'inferiorità «naturale» degli afro-americani, afferma in un articolo intitolato «Encomio dell'impero americano» che gli americani devono finalmente riconoscere che il loro paese «è divenuto un impero (...), il più magnanimo degli imperi che il mondo abbia mai conosciuto»
(13). A queste voci estreme della nuova destra si aggiungono quelle di accademici quali Stephen Peter Rosen, direttore dell'Istituto Olin per gli studi strategici dell'università di Harvard. Quest'ultimo afferma con superbo distacco scientifico che una «entità politica che dispone di una potenza militare schiacciante e che utilizza questo potere per influire sul comportamento degli altri stati non può che definirsi impero (...). Il nostro scopo - prosegue Rosen - non è combattere un rivale, poiché non ve ne sono, ma conservare la nostra posizione imperiale e mantenere l'ordine imperiale»(14). Un ordine, come sottolinea un altro professore di Harvard, del tutto «plasmato a vantaggio [esclusivo] degli obiettivi imperiali americani», nel quale «l'impero sottoscrive gli elementi dell'ordine giuridico internazionale che gli convengono (l'Organizzazione mondiale del commercio, Wto, per esempio), ignorando completamente o sabotando quelli che non gli convengono (il protocollo di Kyoto, la Corte penale internazionale, il trattato Abm)» (15).
Il fatto che l'idea stessa di impero sia in opposizione radicale con la concezione derivata da Tocqueville che gli americani tradizionalmente hanno di se stessi - come eccezione democratica tra le nazioni moderne - non sembra essere un problema insormontabile. Coloro che ancora hanno degli scrupoli - e ce ne sono sempre meno - aggiungono gli aggettivi «benevolente» e «soft» alle parole «impero» ed «egemonia».
Ad esempio, Robert Kagan del Carnegie Endowment scrive: «la verità è che l'egemonia benevolente [benevolent hegemony] esercitata dagli Stati uniti è positiva per una vasta porzione della popolazione mondiale.
Senza alcun dubbio è la migliore soluzione tra tutte le alternative possibili»
(16).
Cento anni prima, Theodore Roosvelt usava quasi le stesse parole.
Rifiutando ogni comparazione tra gli Stati uniti e i predatori coloniali europei di quell'epoca, affermava: «La semplice verità è che la nostra politica di espansione, inscritta in tutta la storia americana (...), non assomiglia in nulla all'imperialismo. (...) Fino a oggi non ho incontrato un solo imperialista in tutto il paese»
(17). Più diretto, Sebastian Mallaby si proclama un «imperialista riluttante».
Editorialista del Washington Post (giornale reso celebre per gli articoli sullo scandalo Watergate e per la sua opposizione, tardiva, alla guerra del Vietnam, ma divenuto dopo l'11 settembre un organo militante dell'impero), Sebastian Mallaby suggeriva, nell'aprile scorso, nella rivista decisamente seria Foreign Affairs, che l'attuale disordine mondiale esige dagli Stati uniti una politica imperiale.
Nel delineare un quadro apocalittico del terzo mondo, dove si combinerebbero fallimento degli stati, crescita demografica incontrollata, violenza endemica e disgregazione sociale, Mallaby sostiene che l'unica scelta razionale sarebbe tornare all'imperialismo, vale a dire alla messa sotto diretta tutela degli stati del terzo mondo che minacciano la sicurezza dell'Occidente. Secondo Mallaby, «poiché le opzioni non imperialiste hanno dimostrato la loro inefficacia (...), la logica del neo-imperialismo è troppo forte perchè l'amministrazione Bush vi possa resistere»
(18). In realtà, Bush non sembra resistere molto alla «logica» neo-imperiale.
Certo, è riluttante a investire dollari per ricostruire stati «in bancarotta» o a impegnare il suo paese in interventi umanitari. Ma non esita un istante a dispiegare le forze armate americane ai quattro angoli del mondo per schiacciare «i nemici della civiltà» e «le forze del male». Del resto, la sua semantica - i riferimenti costanti alla lotta tra la «civiltà» e la «barbarie» e la «pacificazione» dei barbari - tradisce un pensiero imperiale assolutamente classico.
Non sappiamo fino a che punto Bush abbia fatto suo l'insegnamento prodigato da quelle prestigiose istituzioni che sono Yale e Harvard, ma dopo l'11 settembre è effettivamente diventato il Cesare del nuovo partito imperiale americano. Alla pari di Cesare che, secondo Cicerone, «ha riportato successi definitivi in scontri importantissimi con le popolazioni più bellicose (...), ed è riuscito a spaventarli, respingerli, domarli, abituarli a obbedire all'autorità del popolo romano» (19), Bush e la nuova destra americana intendono ormai assicurare la sicurezza e la prosperità dell'impero attraverso la guerra, sottomettendo i popoli recalcitranti del terzo mondo, rovesciando gli «Stati canaglia», e forse ponendo sotto tutela gli «stati falliti» post-coloniali.
Alla ricerca di una sicurezza che sperano di ottenere grazie alla sola forza delle armi piuttosto che attraverso la cooperazione, gli Stati uniti agiscono soli o con coalizioni occasionali, in modo unilaterale e in funzione di interessi nazionali definiti assai rigidamente.
Piuttosto che affrontare le cause economiche e sociali che favoriscono la riproduzione permanente della violenza nei paesi del Sud, li stanno destabilizzando ancor di più dispiegandovi le loro forze armate.
Che l'obiettivo degli Stati uniti non sia l'acquisizione territoriale diretta ma il controllo non cambia granché la questione: gli imperialisti «benevolenti» o «riluttanti» sono comunque degli imperialisti.
Se i paesi del terzo mondo devono sottomettersi e conoscere una nuova era di colonizzazione o di semi-sovranità, l'Europa dovrà accontentarsi di uno status subordinato nel sistema imperiale. L'Europa, nella visione americana nata dall'unipolarismo acquisita nel 1991 e rafforzata dopo l'11 settembre, lungi dall'essere una potenza autonoma strategicamente, resterebbe una zona dipendente, non avendo «né la volontà né la capacità di difendere il suo paradiso (...); [la sua protezione] dipende dalla volontà americana» di fare la guerra (20). Si ritroverebbe inserita in una nuova divisione del lavoro imperiale nella quale «gli americani fanno la guerra, mentre i francesi, gli inglesi e i tedeschi bonificano le zone di frontiera, gli olandesi, gli svizzeri e gli scandinavi fungono da ausiliari umanitari». Attualmente, gli «americani ripongono scarsa fiducia nei loro alleati (...), ad eccezione degli inglesi, escludendoli da ogni attività che non sia il lavoro poliziesco più subordinato» (21). Zbigniew Brzezinski, ideatore del jihad anti-sovietico in Afghanistan, aveva già articolato un concetto analogo qualche anno fa. Secondo lui e molti altri strateghi americani, l'obiettivo dell'America «deve essere mantenere i nostri vassalli in uno stato di dipendenza, assicurare l'obbidienza e la protezione e prevenire l'unificazione dei barbari» (22). Come sua abitudine, Charles Krauthammer si esprime con ancor più crudezza: «L'America ha vinto la guerra fredda, si è infilata in tasca la Polonia e la Repubblica ceca, e dopo ha polverizzato la Serbia e l'Afghanistan. En passant, ha dimostrato l'inesistenza dell'Europa» (23). Questo disprezzo ha molto a che fare con le forti tensioni che scuotono le relazioni trans-atlantiche dopo l'11 settembre.
La scelta imperiale condannerà gli Stati uniti a dedicare il periodo di egemonia che gli resta - quale esso sia - a costruire muri intorno alla cittadella occidentale. Come tutti gli imperi che l'hanno preceduta, l'America, vero «estremo occidente», sarà assorbita, secondo l'espressione dello scrittore sudafricano John Michael Coetzee, «da un unico pensiero: come non finire, come non morire, come prolungare la propria era» (24).


note:

*Docente all'università di Parigi VIII e giornalista.

(1)
Arthur Schlesinger Jr., « Unilateralism in historic perspective «, in Understanding Unilateralism in US foreign Policy, Riia, Londra, 2000, pp. 18-28.

(2) Charles William Maynes, «Two blasts against unilateralism», in Understanding Unilateralism..., pp. 30-48.

(3) Citato da William Appleman Williams, The Tragedy of American Diplomacy, Dell, New York, 1962, P. 26
(4) Citato da Howard K. Beale, Theodore Roosevelt and the Rise of American to World Power, Johns Hopkins University Press, Baltimora et Londra, 1989, capitolo 1.

(5) Howard K. Bearle, op.cit., pp 38 e 39 e 70-78.

(6) Citato da David Healy in US Expansionism, the Imperialist Urge in the 1980's, The University of Wisconsin Press, Madison Wisconsin, 1970, p. 46
(7) Citato in «It takes an empire say several US thinker», The New York Times, 1¼ aprile 2002. Per la citazione del 1999, vedi «The Second American Century», Time Magazine, 27 dicembre 1999. Vedi anche C. Krauthammer, «The Unipolar Moment», Foreign Affairs, New York, 1990.

(8) Citato in «It takes an empire», op. cit.

(9) Joseph S. Nye jr., The Paradox of American Power, Oxford University Press, New York, 2002, p. 1. Ed. it. Il paradosso del potere americano, Einaudi, 2002.

(10)
Paul Kennedy, «The Greatest Superpower Ever», New Perspectives Quarterly, Washington, inverno 2002.

(11) Henry Kissinger, Does America Need a Foreign Policy, Simon & Schuster, New York, 2001, p. 19.

(12) Max Boot, «The Case for American Empire», Weekly Standard, Washington D.C., 15 ottobre 2001, vol. 7, n° 5.

(13) Si legga Christian Science Monitor, Boston, 26 aprile 2002.
Nel suo libro The End of Racism, pubblicato nel 1995, D'Souza afferma «che esiste una gerarchia sociale della capacità razziali», questa gerarchia spiega ad esempio gli alti tassi di criminalità all'interno della comunità afro-americana degli Stati uniti.
(14)
«The Future of War and the American Military», Harvard Review, maggio-giugno 2002, volume 104, n° 5, pagina 29.

(15) Michael Ignatieff, «Barbarians at the gate?», New York Review of Books, 28 febbraio 2002, p. 4. Si legga Pierre Conesa e Olivier Lepick «Washington smantella l'architettura internazionale di sicurezza» Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2002.
(16)
Robert Kagan, «The Benevolent Empire», Foreign Policy, Washington D.C., estate 1998.

(17) Howard K. Bearle, op.cit., p. 68.

(18) Sebastian Mallaby, «The Reluctant Imperialist, Terrorism, Failed States, and the Case for American Empire», Foreign Affairs, New York, marzo-aprile 2002, pp. 2 - 7.

(19) Cicerone, Sulle province consolari, XIII, 32-35 e passim.

(20)
Robert Kagan, «Power and Weakness, Why Europe and the US see the world differently», Policy Review, Washington, giugno-luglio 2002, n° 113.

(21) Michael Ignatieff, op.cit., p.4.
(22) Citato in Charles William Maynes, op. cit., p. 46.

(23) Washington Post del 20 febbraio 2002.

(24) Estratto dal suo grande romanzo Aspettando i barbari, Einaudi, 2000.
(Traduzione di M. D.)



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questo articolo è tratto da un elenco di documenti riguardanti i "neoconservatori" o "neocon" americani presenti sul sito di Fisica/Mente. Non rispecchia quindi necessariamente l'opinione del curatore del sito Kelebek. Fare clic qui per la pagina principale di questa parte del sito, dedicata ai neoconservatori.




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